ELETTORALIA

Lo stato della corsa/2. Negli Stati Uniti i bianchi sono ancora maggioranza

Ma ora forse è una buona notizia per i democratici

MARIO ALOI
27/10/2024

 


Dal lancio di questa rubrica è passata una settimana abbondante, il che vuol dire che siamo anche una settimana e qualcosa più vicini alle elezioni presidenziali americane. Sono stati dieci giorni di aggiustamenti strategici per la campagna di Harris, ne abbiamo parlato mercoledì. I sondaggi continuano a muovere leggermente verso Trump e questo ha portato qualche ansia nella war room democratica. Sono spostamenti minimi dal punto di vista numerico, ma sempre più coerenti, tanto che ormai mi pare comincino a significare qualcosa. Forse. Vedremo. Ad ogni modo, proprio perché per la settimana in corso abbiamo già discusso tutti i micro-movimenti rilevanti, in questo nuovo aggiornamento domenicale mi limiterei ad aggiungere due piccole note a piè di pagina – note statistiche, ma che forse nascondono implicazioni più ampie.

La prima riguarda la depolarizzazione razziale di cui abbiamo parlato a più riprese. Ci si concentra spesso sul lato delle minoranze, i giornali tendono a evidenziare per lo più il fatto che afroamericani e ispanici sembrino spostarsi – non del tutto, son processi lunghi, ma almeno un po’ – verso i repubblicani. Rilevazioni di questo genere si prendono prime pagine e titoli perché suonano superficialmente controintuitive. I non bianchi votano Trump, quel razzista, sul serio? La verità però è che non si muovono solo le cosiddette minoranze, ma in direzione contraria anche i bianchi, che ora sembrano preferire Harris e i democratici un poco più di prima (Trump vinse il voto bianco di 15 punti nel 2016 e di 12 nel 2020, oggi saremmo intorno al 10[1]). La chiamano depolarizzazione proprio per questo: ci sono oscillazioni su entrambi i lati dello spettro, che in un certo senso riequilibrano la società americana – almeno per quanto concerne le sue componenti etnico-razziali.

Se questo è il quadro, ne conseguono una serie d’implicazioni appunto statistiche. A dispetto di ormai quasi due decenni passati a parlare del futuro in cui le minoranze tutte insieme avrebbero fatto maggioranza, gli americani sono ancora per lo più bianchi: 61% circa della popolazione, a fronte di un quasi 19% d’ispanici e un 13 e mezzo di afroamericani. Questo significa che basta uno spostamento tutto sommato minore tra i bianchi per bilanciarne di molto più significativi tra afroamericani e latini. E allora però il fatto di perdere voti tra le minoranze, sempre che si accompagni a un qualche guadagno tra i bianchi, potrebbe rivelarsi una buona notizia per Harris, che si troverebbe a pescare più voti di quelli che lascia, ma soprattutto in posti dove i voti – che ricordiamolo ancora una volta nel sistema americano si pesano, non si contano – valgono doppio (sì, i soliti Pennsylvania, Michigan e Wisconsin).

Lo riassume molto bene e con qualche esempio il giornalista americano Matthew Yglesias sul suo SlowBoring:

Vale la pena ricordare che non solo la maggior parte degli americani sono ancora bianchi, ma che i bianchi tendono a votare di più rispetto ai non bianchi (principalmente perché hanno media età e tassi d’istruzione più alti) e sono pure sovrarappresentati negli stati decisivi all’interno del collegio elettorale. Giocando con la mappetta interattiva di 538 si può facilmente vedere che anche se Trump pareggiasse il conto tra gli ispanici (rispetto al -37% del 2020), a Harris basterebbe guadagnare appena 2 punti tra i bianchi per vincere. Oppure immaginiamo che Trump guadagni 38 incredibili punti tra gli afroamericani, ma ne perda 3 tra i bianchi. Lo stesso, vince Harris. È davvero solo che in America ci sono un sacco di bianchi.

La seconda cosa riguarda invece la discussione su quale tra i due contendenti abbia più chance di passare per il candidato del cambiamento e più nel particolare il paradosso in cui sono incastrati i democratici, e forse le sinistre di tutto il mondo, che si dimenano tra le opposte necessità di difendere il sistema e contestarlo. Anche qui, abbiamo sviscerato l’argomento a dovere già la settimana scorsa, ma faccio un’integrazione.

È tradizione negli Stati Uniti che gli elettori più assidui e affidabili, suburbani e istruiti, quelli che si presentano alle urne sempre e comunque, votino conservatore. E quindi i repubblicani hanno spesso fatto meglio nelle elezioni a bassa affluenza, locali per esempio, o nei midterm rispetto alle presidenziali. È una cosa anche intuitiva, i partiti progressisti per fare la differenza si rivolgono a quelle persone che vogliono cambiare il contesto, che ne sono in certa misura scontente, e che di conseguenza a questo contesto e ai suoi riti partecipano meno. L’outsider, da intendersi come la parte che almeno a livello di percezione diffusa è meno integrata nella rete d’interessi del sistema, ha quasi sempre bisogno di mobilitare.

Però, però. Tra le tante regole della politica americana che siamo quotidianamente costretti a ridiscutere, anche questa parrebbe mostrare il fianco. Uso di nuovo le parole di due esperti, per farla breve, Eli McKown Dawson e Nate Silver:

Nell’era di Trump questa tendenza è molto più ambigua. I democratici adesso dominano le fasce più istruite della popolazione o le aree suburbane – e fanno sempre benissimo in contesti a bassa affluenza come le elezioni speciali. Al contrario, Donald Trump si affida agli elettori irregolari, che di certo non vedrai fare la fila per votare alle municipali, ma che possono venir fuori con grande entusiasmo nelle tornate presidenziali, o almeno farlo per lui.

I dati sono confusi e quindi è davvero impossibile scrivere l’ultima parola su questo tema. Per dire, in queste elezioni i sondaggi dicono che a livello nazionale sarebbe Harris a far meglio tra gli elettori probabili che non tra quelli semplicemente registrati, mentre in alcuni stati in bilico è Trump a trarre vantaggio dal passaggio alle rilevazioni per soli likely voters. Proprio questa confusione però restituisce l’idea di una qualche transizione in corso – se non altro perché prima non c’era, la tendenza è sempre stata chiarissima. E anche il pasticcio coi sondaggi potrebbe venire dal fatto che chi li produce utilizza criteri di pesatura obsoleti, basati su una serie di presunzioni circa il comportamento elettorale che non si applicano più al contesto attuale, proprio perché il contesto sta cambiando ma non abbiamo ancora chiaro dove sia diretto.

Ciò detto, se volevate un indizio che i democratici stiano in qualche modo diventando quello che volgarmente si chiama un partito di establishment, da mettere insieme al fatto che la parte più ricca del paese sembra trovarli sempre meno respingenti, monitorare questa tendenza può essere un’idea.

 

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[1] Almeno fino a settembre, nell’ultimo mese i repubblicani sembrerebbero in rimonta sopratutto in questo segmento demografico, il che spiegherebbe anche la graduale erosione del vantaggio di Harris in Pennsylvania, Michigan e Wisconsin.