STORIES 

Maggioranze divergenti

Quando la demografia non è destino

RICK PERLSTEIN, GERALDO CADAVA
24/10/2024

 


La conversazione che segue è apparsa originariamente sulla rivista The Baffler. Coinvolge due storici americani che per rispettive aree di ricerca sono particolarmente qualificati a discutere il riallineamento della mappa elettorale cui facciamo spesso riferimento su queste pagine.

Rick Perlstein è esperto del movimento conservatore americano, di cui ha raccontato la storia da Goldwater a Reagan in quattro – grandiosi, se possiamo dire – libri: Before the Storm: Barry Goldwater and the unmaking of the American Consensus (2001), Nixonland: The Rise of a President and the Fracturing of America (2oo8), The Invisible Bridge: The Fall of Nixon and the Rise of Reagan (2014) e Reaganland: America’s Right Turn (2020). Geraldo Cadava studia invece le comunità latinoamericane negli Stati Uniti, le aree di confine con il Messico e le questioni legate all’immigrazione in generale. È autore di The Hispanic Republican: The Shaping of An American Political Identity, from Nixon to Trump (2020).

Questo dialogo, come da introduzione sotto, risale a metà luglio, quando il candidato democratico era Biden, ma tratta temi storici di lunghissima gittata e rimane quindi ancora oggi rilevante. Anzi, considerati tutti i discorsi che stiamo facendo sull’apparente spostamento di alcuni blocchi elettorali tradizionalmente democratici verso Trump, oggi è quasi più rilevante di ieri.

 

Tra tutti e due abbiamo passato parecchio tempo a pensare alla storia politica degli Stati Uniti. E ci colpisce, anche se in maniera differente, il fatto che stiamo passando attraverso una fase di potenziale riallineamento molto diversa da quelle che abbiamo visto finora. Una fase per la quale riallineamento potrebbe addirittura essere una definizione troppo leggera.

Non molto tempo fa in molti pensavano che un elettorato sempre più multirazziale e multietnico avrebbe finito per consegnare vittorie su vittorie ai democratici. La demografia è destino, dicevano, con anche maggior convinzione negli anni di Barack Obama, la cui elezione avrebbe dovuto dimostrare che quel futuro arcobaleno era finalmente arrivato. È sempre stata una teoria pericolante, e quanto pericolante fosse ci è tanto più evidente adesso – anche alla luce di come il sostegno della classe lavoratrice non bianca per Joe Biden sia calato negli ultimi anni.

Mandiamo questa conversazione in stampa tre settimane dopo la disastrosa performance del presidente nel dibattito e una settimana dopo l’attentato a Donald Trump. Supponendo che i candidati rimarranno gli stessi, staremo a vedere se Trump riuscirà davvero, come dice, a vincere il voto ispanico e fare meglio tra gli afroamericani di tutti i repubblicani che l’hanno preceduto, considerata pure la carica al vetriolo dei suoi discorsi sulla razza. Ma comunque vada, non c’è dubbio che gli Stati Uniti stiano attraversando una transizione mai vista prima, che ora sta addirittura accelerando. L’idea è quella di sederci e riflettere con calma su come siamo arrivati a questo punto, a che punto stiamo e anche dove siamo diretti. Forse nessuno si rende davvero conto di quanto sia difficile processare tutte queste cose.

 Rick Perlstein: Gli opinionisti sono da sempre alla ricerca disperata di una qualche maggioranza permanente che stabilizzi la politica americana. Non aspettano altro che poterne annunciare l’avvento, come se le tendenze del presente dovessero ogni volta durare all’infinito – ignorando il fatto che poi la distanza tra i due partiti nel nostro sistema chi-vince-piglia-tutto non è mai così ampia, nemmeno in quelle vittorie che chiamiamo “a valanga”.

Dopo le presidenziali del 1964, in cui il democratico Lyndon Johnson stracciò Barry Goldwater, senatore repubblicano dell’Arizona, i commentatori ebbero esattamente questo tipo di reazione impulsiva e riduttiva. Dicevano così: «Come è possibile che i repubblicani abbiano potuto pensare di avere un futuro con questa roba che chiamano conservatorismo, quando il censimento ha appena mostrato come il paese sia ormai prevalentemente urbano? Tutti sanno che il conservatorismo è l’ideologia delle retrograde popolazioni rurali». Poi venne fuori che il censimento contava come urbano ogni posto con più di 2.500 abitanti e il movimento conservatore ebbe lunga vita in parecchi angoli del paese.

Non a caso, l’elezione immediatamente dopo andò a un repubblicano di nome Richard Nixon, che venne anche rieletto nel ‘72 con una vittoria schiacciante più o meno quanto quella di Johnson del ‘64. Ma siccome il Watergate lo obbligò a dimettersi in disgrazia, tutti si convinsero di nuovo che i democratici avrebbero continuato a dominare la politica nazionale per decenni a seguire. Pochi anni dopo, invece, Reagan ebbe la meglio su Carter e poi venne Bill Clinton, la cui presidenza in un certo senso mutuava i principi conservatori dell’America reaganiana: le virtù del libero mercato, l’approccio securitario, politiche d’immigrazione restrittive. Lo storico Sean Wilentz, nel suo libro L’età di Reagan, sostiene che quella fase si sia davvero conclusa solo nel 2008.

In quell’anno Barack Obama diventa il primo presidente nero degli Stati Uniti. Viene eletto a causa del suo talento politico generazionale, la frustrazione diffusa per le interminabili guerre post-11 settembre in Medio Oriente e il crollo dell’economia nell’anno elettorale. Vince ancora nel 2012, anche se i repubblicani erano convinti che Romney l’avrebbe spuntata. Dopo la seconda vittoria di Obama i democratici dissero, ancora: «Come è possibile che i repubblicani potessero pensare di avere un futuro con questa cosa che chiamano conservatorismo, quando l’America sta diventando un paese in cui le minoranze insieme fanno maggioranza? Tutti sanno che il conservatorismo è l’ideologia dei bianchi». Jonathan Cahit, tra gli altri, scrisse che «il Partito Repubblicano sta guardando dritta negli occhi la sua estinzione demografica». Secondo lui la ragione per cui i conservatori sembravano all’improvviso tutti incattiviti stava proprio lì, come se non fosse mai successo prima.

Ovviamente, da storico, ho esposto le mie perplessità già all’epoca e continuo a farlo oggi. Per cominciare, i commentatori non tengono mai conto del fatto che ci sarà per forza di cose una reazione: la sensazione che qualcosa ti venga sottratto è sempre tra i principali fattori di mobilitazione, specie per i conservatori. Ma poi c’è quest’idea che in qualche modo l’identificazione con uno dei due partiti sia scritta nel DNA di alcuni gruppi etnici…

Geraldo Cadava: … che è veramente sorprendente. Politici, giornalisti, commentatori, anche gli americani in generale, non fanno che cercare dramma e conflitto in tutte le storie che raccontano sulla politica: guerre culturali, guerre reali, amici e nemici, chi sta dentro e chi sta fuori. Un mondo di maggioranze permanenti sarebbe invivibile prima di tutto per i giornalisti! Perché siano tanto innamorati di quell’idea è un mistero. E poi come fanno a credere davvero che a quel punto l’altro partito se ne starà lì passivo accettando di morire. Dopo la sconfitta di Goldwater, gli strateghi di Nixon ebbero subito molto chiaro cosa era accaduto e cosa dovevano fare in risposta. I partiti funzionano così. Se li fai a pezzi in un’elezione, quella dopo cercheranno una soluzione alternativa, che dia risultati migliori.

E poi dal punto di vista di uno storico l’idea che sia tutto scritto e immobile – l’idea delle maggioranze permanenti – non ha alcun senso. Di base raccontare la storia significa testimoniare i cambiamenti nel tempo. Com’è quell’avvertenza commerciale sulla performance passata che non è garanzia di risultati futuri?

RP: I commentatori non ne azzeccano una, fa abbastanza impressione. Anche se le storie che politici, giornalisti e opinionisti raccontano sono spesso costruite intorno a tensione e conflitti, ho una teoria sul perché chi controlla il flusso delle notizie, le élite mediatiche, sia poi alla fine e forse in maniera contraddittoria ossessionato dal trovare sempre un qualche equilibrio nella politica americana.

La parola chiave per me è élite. Credo che a un qualche livello ideologico si considerino i guardiani della civiltà. E questo mi pare vero per ogni sorta di élite: nel giornalismo, nella politica interna o internazionale. Chi sta in cima alla catena di comando è sempre implicitamente terrorizzato dal calderone in ebollizione appena sotto la placida superficie delle nostre società. Pensa alla crisi secessionista del diciannovesimo secolo, quando tutti i compromessi che nascondevano «l’instabilità della casa divisa», come la chiamava Lincoln, cominciarono a sgretolarsi. Il presidente pensava che il paese non avrebbe tenuto rimanendo metà libero e metà schiavista. Una delle risposte delle élite fu la fondazione di quello che è forse il mio partito preferito della storia americana, il Constitutional Union Party. In pratica questa gente cercò di tranquillizzare tutti semplicemente promettendo che non avrebbero mai parlato di schiavitù per l’intera campagna elettorale del 1860. Problema risolto! Oppure il miglior titolo di sempre del New York Times, il giorno dopo le elezioni del 1964: «Reazione bianca non pervenuta». Problema risolto!

La fantasia del paese a maggioranza di minoranze che seguì il trionfo di Obama nel 2008 è giusto l’ultima versione di questa roba qui. La pretesa che Obama avesse ricomposto tutti i conflitti razziali della nazione nella sua figura. Tecnocrati competenti di ogni estrazione etnica avevano preso il potere – di nuovo, i guardiani della civiltà – e con i bianchi sotto il 50 percento non ci sarebbe mai più stato abbastanza risentimento da rovesciare la barca. Problema risolto! Tutto passato! Le élite adorano quest’idea più di ogni altra: “l’unità nazionale”.

Grandi eccezioni

GC: Io sono sempre più portato a pensare che quel periodo tra il movimento dei diritti civili e gli otto anni di Obama, che poi culminarono nell’elezione di Trump, sia un momento a parte della storia americana – chiamiamolo la fine dell’era dei diritti civili. È un po’ come l’idea di Jefferson Cowie sulla fase tra Grande Depressione e anni ’70 come «grande eccezione», quando gli Stati Uniti sembravano sulla strada di un qualche salto evolutivo permanente in tema di diritti economici. Quest’ultimo periodo invece, tra il 1954 e il 2016, è stato forse la grande eccezione in termini di avvicinamento all’idea di democrazia multirazziale. Penso che quando gli storici tra venti o trent’anni scriveranno delle elezioni 2016 e del loro significato ne parleranno come l’epilogo di questo passaggio in cui ci siamo convinti che tutto sarebbe andato sempre meglio – anche se a dire il vero non è che andasse benissimo proprio per tutti.

Queste storie che giravano, anche prima che Obama fosse eletto, su come stessimo sfrecciando verso un futuro armonioso in cui le minoranze insieme faranno maggioranza, erano forse la ragione per cui riuscivo ancora a dormire la notte durante la presidenza Trump. La convinzione che fosse l’ultimo rantolo, il sussulto finale della maggioranza, come dire: sono così arrabbiati perché finalmente sta passando. Poi ho dovuto ammettere a me stesso che, beh, ovviamente la transizione non poteva filare del tutto liscia. Anzi, sarebbe stata violenta. Nessuno molla semplicemente il potere così. Ma quello che sta diventando sempre più chiaro è che la fase conclusa nel 2016 è stata un’eccezione e credere che l’elezione di Trump fosse l’ultimo sussulto solo un’illusione, perché questa rabbia è la corrente sotterranea a tutta la storia americana.

RP: Eh sì. Il punto di Cowie è deprimente ma direi vero. Il momento di tensione unitaria intorno a un nuovo patto sociale che mettesse al centro la classe lavoratrice e l’idea di una socialdemocrazia più forte che si affermarono a metà del secolo scorso erano precedentemente in stallo a causa delle profonde divisioni etniche e religiose, che però divennero meno centrali quando nel 1924 ogni forma d’immigrazione fu di fatto sospesa con il Johnson-Reed Act. E adesso siamo tornati indietro agli anni ’20 del Novecento, la coda finale della Progressive Era, quando il governo voleva mettere ordine nella società americana attraverso burocrazia e professionalizzazione, con l’idea di costruire una nuova America fondata su nativismo, omofobia, approccio eugenetico alla differenza razziale e criminalizzazione della popolazione non bianca.

GC: Un centinaio di anni fa, proprio come oggi, le minoranze e gli immigrati – due insiemi separati che possono sovrapporsi ma non devono essere confusi come se i termini fossero sinonimi – non si vedevano necessariamente come gruppi con una coerenza interna e interessi o identità condivise. Non parlavano con una voce unica. Per questo l’idea di un futuro in cui le minoranze fanno maggioranza è problematica. Per carità, può essere che ci siano minoranze che vogliono far parte della maggioranza. La League of United Latin American Citizens, per esempio, che fu fondata nel 1929 a Corpus Christi, in Texas, era un’associazione composta per lo più da professionisti messicani che volevano integrarsi – non tanto come bianchi, perché rivendicavano la loro natura razziale mista, ma come americani. I soci dovevano essere cittadini americani, nelle riunioni parlavano inglese, e il gruppo adottò la preghiera di George Washington come preghiera ufficiale.

Ma si può anche essere al contempo maggioranza e minoranza. La famiglia di mia madre viene da Scozia e Galles, mentre quella di mio padre da Colombia, Panama, Filippine, Messico e chissà che altro. Quindi, certo, chiamatemi pure americano-messicano, che è quello che la gente immagina quando sente il mio nome e quando dico che vengo da Tucson, Arizona, perché è così che la maggior parte degli ispanici in quelle zone pensano a se stessi. Però sono anche colombiano, panamense, filippino e tutto il resto. Mezzo ispanico, ma mezzo no. Quando pensiamo all’identità etnica di qualcuno e come inserirla nella mappa partitica dovremmo semplicemente abbandonare l’idea che queste comunità votino per forza in maniera monolitica, perché siamo tutti parte di un qualche gruppo, ma l’identificazione non è mai totale, la nostra relazione con i gruppi cui apparteniamo non è mai esclusiva.

Questo è un punto fondamentale dell’esperienza latina. Repubblicani e democratici ci spiegano che siamo repubblicani naturali o democratici naturali, ma lo fanno per calcolo politico più che perché conoscano realmente il nostro carattere collettivo. Noi siamo sempre stati sia l’una che l’altra cosa, e allo stesso tempo nessuna delle due. Dagli anni ’60, la maggior parte di noi ha sempre votato democratico, ma c’è anche una parte consistente che ogni elezione preferisce i repubblicani. E poi le nostre convinzioni politiche spesso si sono formate più in America Latina che negli Stati Uniti. Solo qui quello in cui crediamo viene organizzato secondo le categorie liberal o conservatore, democratico o repubblicano. Per di più ci vogliono anni – a cercare di diventare cittadini, per quelli che ci provano – perché le nostre idee, formate in un altro posto ma adattate a questo paese, abbiano un qualunque effetto elettorale. Detto anche che la metà di noi nemmeno vota alle presidenziali, abbiamo uno dei tassi di affluenza più bassi di tutto il paese.

RP: In un certo senso applichiamo ancora la regola della «singola goccia di sangue» quando chiamiamo ispanici persone come te.

GC: Assolutamente. O anche messicani. Non è che io abbia alcun problema se mi chiami messicano. Sono messicano-americano, va benissimo. Ma non so se la percezione che le persone hanno di se stesse sia sempre così lineare. Quello che è spesso molto definito, invece, è l’idea che hanno dei propri interessi. E questo nonostante il fatto che quando i latini o qualunque altro gruppo votano, sembrano sempre deludere le aspettative che altri avevano su di loro. Più volte si sono sentiti dire che hanno votato «contro il loro interesse». È così che gli ispanici repubblicani vengono ogni volta liquidati come fossero un piccolo gruppo collaterale con caratteristiche particolari: i più bianchi, i più ricchi, i più religiosi, quelli che non vanno al college. Ma la verità è che hanno ben chiaro quali siano i loro interessi. Solo che non sono i tuoi d’interessi, o i loro interessi per come li vedi tu.

RP: E poi c’è la questione presa dal lato dell’offerta, quando politici, o imprenditori, provano a dire: «Io faccio i vostri interessi, vi rappresento! Sono il vostro uomo! Tutti gli altri vi danno per scontati…». Che del resto è una vecchia storia. I repubblicani ci provarono già con gli afroamericani. Ne ho scritto in Reaganland, per esempio di quanti sforzi abbiano fatto per portare Jesse Jackson dalla loro. Lui era anche aperto a considerare le loro proposte, al punto da tenere il discorso principale alla convention repubblicana del 1978 – era un po’ il suo modo di strigliare i democratici, che secondo lui davano il voto nero per scontato. I repubblicani hanno tentato spesso di reclutare i leader delle varie minoranze. Anche Kathrine Ortega, che era tesoriere degli Stati Uniti, tenne il discorso principale alla convention repubblicana, questa volta nel 1984. Jack Kemp voleva costruire un partito ombrello, più inclusivo, ma Pat Buchanan non era tanto d’accordo. Nell’era di George W. Bush, hanno lavorato duro per attrarre gli elettorati ispanici e araboamericani, prima dell’11 settembre. Bush fece molto bene tra i latini, suo fratello parla un ottimo spagnolo…

GC: … sì anche se nonno Bush è tristemente noto per aver chiamato i figli di Jeb «piccoli marroncini». E poi dopo che i repubblicani persero nel 2012 fecero la famosa «autopsia» della sconfitta. Tutti i notabili del partito convennero che fosse il caso di diventare più inclusivi, aprire ai latini, agli elettori LGBTQ, agli afroamericani, ai cittadini di origine asiatica e ai nativi americani. Altrimenti nel 2016 ci faranno un mazzo tanto, dicevano. Ed è per questo secondo me che così tanti di noi – quelli di noi che ancora credevano che il paese stesse marciando saldo verso la democrazia multirazziale – nel 2014/15 si aspettavano che la nomination sarebbe andata a qualcuno come Marco Rubio. Pensa che con la storia della maggioranza di minoranze ci siamo messi a sognare persino un nuovo Partito Repubblicano.

Dati per scontati

RP: Ma poi i repubblicani non hanno seguito quella strada e non hanno nemmeno preso il mazzo tanto. Hanno anche provato a diventare un partito ombrello, ma non nel modo che immaginava Kemp, rifiutando la xenofobia, l’omofobia tutte le altre fobie, insomma facendo loro la visione dei democratici. All’esatto opposto adesso è Trump che sembra guadagnare consensi tra gli elettori non bianchi. Cos’è successo? Cosa fanno? Che cosa significa?

GC: Mi piacerebbe saper dare una risposta sintetica a queste domande, che chiarisca in poche parole ai nostri lettori cosa sta accadendo. Ma la verità è che ci sono numerose spiegazioni possibili. Per esempio, si specula un sacco sul perché i latini siano attratti da “uomini forti” alla Trump, a causa della loro cultura…

RP: Machista!

GC: … e caudillista. Questi uomini forti che in Sudamerica chiamano caudillos, come per esempio Pancho Villa in Messico, Anastasio Somoza in Nicaragua, Carlos Castillo Armas in Guatemala, Rafael Trujillo nella Repubblica Dominicana, e pure Fidel Castro a Cuba – ma non è che tu possa sempre collocarli in modo chiaro a destra o a sinistra. E magari questo vuol dire qualcosa. Nel senso, sappiamo che Trump ha guadagnato voti latini, per lo più tra gli uomini non laureati. Sono sempre stato poco convinto della teoria dell’uomo forte, però, perché sembra suggerire che in noi latini ci sia un’attrazione genetica per il leader autoritario. Inoltre molte delle persone che abbiamo eletto di recente sono donne, quindi non è che siamo davvero interessati a votare solo uomini.

C’è un’altra teoria molto diffusa, che mi fa sempre venire in mente la famosa citazione di Reagan: «Non ho lasciato io il Partito Democratico, è il Partito Democratico che ha lasciato me». I latini che prima del 2016 pensavano a se stessi come moderati, al centro/centrodestra dello spettro politico, o quelli che forse non sono troppo interessati alla politica, che magari hanno votato per Obama nel 2008 e nel 2012, ma poi per Trump nel 2016 e nel 2020, dicono che i democratici sono diventati troppo di sinistra e stanno passando il limite. Che oggi sono troppo “woke”. Chiedono di tagliare i fondi alla polizia, sono ossessionati dalla giustizia razziale, sono ostaggio dei sindacati degli insegnanti o delle charter school, vogliono tutte le frontiere aperte, un paese senza religione e senza limitazioni sull’aborto. Niente di tutto ciò è vero, ovviamente. Immagina se dovessi dire a un attivista per l’immigrazione che i democratici sono finiti troppo a sinistra. Ma queste sono le idee che i repubblicani usano per fare lotta politica. E molti latini pensano di essere fermi al centro, anche se di fatto si sono spostati a destra.

RP: Cosa dici invece dell’altra teoria, che ha a che fare con quanto dicevi su Jesse Jackson negli anni ’70, secondo cui i democratici avrebbero dato gli ispanici o i messicani o i portoricani per scontati?

GC: Non c’è dubbio che sia così! Dare gli elettori per scontati è una conseguenza della pigra idea che la demografia è destino. I candidati democratici pensano di poter fare quello che vogliono, perché tanto queste persone voteranno per loro comunque, anche se continuano a ignorare le loro richieste. Per quello che vale, penso che questo tipo di fedeltà incondizionata a qualunque partito sia un po’ stupida. I partiti devono sempre fare un minimo di sforzo per convincere gli elettori e poi dare seguito alle parole con i fatti. Non è così che ci si guadagnano fiducia e voti? Negli anni ’50 e ’60, il primo periodo che racconto nel mio libro The Hispanic Republican, i pochi messicano-americani che iniziarono a votare repubblicano in California e Arizona dicevano: «Siamo stati leali al Partito Democratico dai tempi di Roosevelt ed è vero che lui ci ha aiutato a mettere il cibo in tavola, ci ha tirati fuori dalla depressione. Ma dopo? Cosa abbiamo ottenuto in cambio?». Oppure: «I democratici si presentano ogni quattro anni a chiedere voti, poi quando l’elezione è passata, per i quattro anni che seguono si dimenticano di te». Il movimento avviato da queste persone non raggiunse risultati degni di nota fino agli anni di Nixon, ma rappresentava l’inizio dello sforzo ispanico-repubblicano per allentare la presa che i democratici avevano avuto sui latini per tutta la generazione precedente.

RP: Reagan diceva qualcosa del genere a proposito degli afroamericani, che i democratici ti portano nelle piantagioni, poi ti lasciano lì e si dimenticano di te.

GC: Ahia… Però, sì, nel senso, assolutamente. Alla fine è una questione abbastanza basica: dove ti ha portato la tua fedeltà? E adesso molti latini che hanno sempre votato democratico si fanno questa domanda. Per esempio, i democratici non fanno che parlare di riforma dell’immigrazione. Però poi le politiche di Biden in materia non è che sembrino molto diverse da quelle di Trump. E allora invece di raccontare cosa hanno o non hanno fatto sull’immigrazione – o sull’inflazione, per dirne un’altra – gli spot elettorali dei democratici rivolti ai latini si concentrano su Trump e la minaccia per la democrazia e il suo razzismo e le cose che dice sul sangue degli immigrati che avvelena il paese. Roba brutta, ma sarebbe meglio poter parlare di quello che ha fatto Biden.

Quindi sì, dare i latini per scontati è una buona parte della storia. La campagna democratica questa volta non è sembrata farlo, ma vedremo se gli sforzi pagheranno. Ho parlato anche con molti ispanici repubblicani secondo cui Donald Trump ha cambiato il partito in positivo, provando che la retorica dei democratici sull’immigrazione non è l’unico modo di corteggiare i latini, visto che alcuni di loro sono a favore di provvedimenti più restrittivi. E questo in aggiunta al fatto che esistono ispanici evangelici, o imprenditori, e altri sostenitori delle charter school. In molti oggi stanno ripensando gli anni di George W. Bush, quando si riteneva che fosse lui la risposta repubblicana alle richieste degli ispanici. Ma adesso in quelle comunità dicono che secondo loro Bush era «un repubblicano all’acqua di rose».

È stato chiarito in tutte le salse ormai, l’immigrazione non è la preoccupazione principale della popolazione latina. Questi ispanici secondo cui Bush è un finto repubblicano pensano anche che i democratici abbiano completamente frainteso le loro posizioni in tema d’immigrazione. I sudamericani non vengono negli Stati Uniti per essere ammassati tutti insieme sotto la semplicistica etichetta di “latinos”. Al contrario, vengono qui per lavorare, diventare autosufficienti, prendersi cura delle loro famiglie, garantire ai propri figli la miglior istruzione possibile. E magari anche mettere su un’impresa o comprare casa. Per molti di loro gli Stati Uniti sono ancora la terra dell’opportunità. Che riescano a costruire qualcosa o che si accorgano che i loro sogni erano solo illusioni non ha alcuna importanza, la vedono così. Queste cose sono ancora il motivo per cui vengono qua.

RP: E cosa pensi delle accuse dei democratici che Trump e i repubblicani usino i canali in lingua spagnola tipo Univision, oppure Radio Mambì a Miami, per fare disinformazione? Quando Univision ha intervistato Trump lo scorso autunno ci fu un sacco di clamore a causa della presunta virata a destra della rete. E parrebbe anche che le radio in lingua spagnola diffondano teorie del complotto tipo QAnon.

GC: Sì, i democratici stanno moltiplicando lo sforzo per arrivare ai latini anche perché dicono che i repubblicani fanno un sacco di disinformazione. Ovunque ci sia disinformazione è giusto combatterla, non c’è dubbio. Ma io penso che questa retorica comporti un rischio, che gli argomenti dei conservatori vengano liquidati come disinformazione anche quando sono in realtà solo espressione di una visione politica differente. E poi mi preoccupa che insistere troppo sulla disinformazione possa far passare l’idea che i latini si bevono tutto quello che gli racconti, finendo per rafforzare certi stereotipi razzisti su queste popolazioni: che sono creduloni, distratti e senza senso critico.

RP: E infine c’è la classica storia secondo cui i membri delle minoranze diventano via via più conservatori, o per metterla nei termini usati da qualche storico più “bianchi”: salgono la scala sociale e pensano a conservare quanto hanno acquisito. Vogliono “stabilità” – un termine che ormai fa quasi da richiamo codificato, se è un repubblicano a usarlo. Ho un aneddoto su questa cosa. Ho parcheggiato la mia macchina dove non si poteva. E me l’hanno portata via. Sono dovuto andare a riprenderla al deposito di Clark Street a Chicago e una volta lì mi sono messo a parlare con il tizio dietro al bancone. Mi ha detto chiaramente che gli piace Trump – «anche se sono messicano, perché l’immigrazione è fuori controllo». E poi aggiunge: «Lo sapeva che danno a ciascuna di queste persone 9.000 dollari appena arrivano?»

GC: Ho sentito anche io quella cifra, ma non riesco a capire dove la prendano.

RP: Forse c’è qualche studio che ha ricostruito come a livello di gestione amministrativa ogni immigrato costi al governo 9.000 dollari. Sono invenzioni cospirative che senti continuamente quando studi la politica di destra. Per esempio negli anni ‘50 approvarono una legge che doveva finanziare un incremento delle strutture per la salute mentale in Alaska e si era diffusa l’idea che in realtà servisse a costruire manicomi dove rinchiudere i conservatori, come facevano con i dissidenti in Siberia. Sono teorie cospiratorie che mettono insieme stralci di notizie vere e ansie della popolazione. Quindi poi hai questo tizio che magari è il proprietario del deposito, o semplicemente lo gestisce, che guadagna 20 dollari l’ora, o 15, e viene sedotto dalla classicissima politica del risentimento: il governo si prende cura di tutti tranne me, mi abbandona. Viene raccontato molto bene in un libro che si chiama How Mexican Americans Become White, è una storia vecchia. Secondo David Roediger, lo spiega nel suo The Wages of Whiteness, uno dei modi per gli irlandesi emarginati nella Filadelfia del diciannovesimo secolo di “diventare bianchi” – di provare che appartenevano al gruppo dominante – era replicare la più americana delle usanze: dare addosso ai neri, gli emarginati tra gli emarginati.

È complicato

GC: Vero, gli afroamericani sono sempre il bersaglio preferito, persino per i latini, cosa particolarmente dolorosa per gli afrolatini, che si sentono tagliati fuori da entrambe le parti. Vorrei tornare sull’immigrazione però. I repubblicani parlano di elettrificare le recinzioni al confine e scavare fossati per riempirli di alligatori. Vorrebbero pure sparare alla gente che cerca di passare la frontiera, se non avesse delle conseguenze legali. Eppure ci sono latinoamericani conservatori che cercano di convincere la gente a votare per loro. Una volta ho intervistato il segretario del Partito Repubblicano di El Paso, in Texas, che è messicano-americano. Mi ha raccontato che partecipa personalmente a ogni singola cerimonia di naturalizzazione in città e una volta lì distribuisce volantini su idee e valori del partito. Mi pare un segnale evidente che anche i repubblicani pensano di poter attrarre chi acquisisce la cittadinanza. Non pensano che diventeranno automaticamente democratici. L’unica pregiudiziale netta per loro è se sei cittadino o “illegale”, che poi è il motivo per cui hanno cambiato nome alla campagna rivolta a queste comunità, dal Latinos for Trump del 2020 al Latino Americans for Trump di oggi.

RP: Rimane interessante come molti repubblicani continuino a pensare che i democratici vogliono più immigrati solo per avere più elettori e che alla fine questi vengono qui unicamente per i 9.000 dollari, tutta la roba gratis, e che non riusciranno a integrarsi come gli altri prima di loro. È un modo di ragionare così disfattista. I cubani, per esempio, molti dei quali sono arrivati come rifugiati in fuga dal regime comunista, sono diventati in maggioranza repubblicani. E c’è ragione di pensare che chi arriva dal Venezuela possa seguire una traiettoria simile. Eppure, tutti continuano a ripetere che Biden fa entrare un sacco di venezuelani perché pensa che diventeranno automaticamente democratici.

GC: Già, che assurdità. Pensano che siano “democratici naturali”. Ma la verità è che venezuelani e colombiani sono aperti a Trump e ai repubblicani. Quello che molti repubblicani non latini fanno, a differenza del tizio di El Paso di cui parlavo prima, è considerare gli ispanici come un blocco unico. Come fossero in qualche modo tutti clandestini messicani. Questi immigrati sono anche disposti a votarli, ma i repubblicani a volte cercano in tutti i modi d’impedirglielo.

Dopo l’uragano Maria, per esempio, quando si discuteva della possibilità che Porto Rico diventasse stato, Trump disse che il suo partito avrebbe appoggiato la proposta a patto di guadagnarci due senatori. I repubblicani sono terrorizzati che se Porto Rico diventa stato saranno i democratici a trarne vantaggio. Ma i conservatori portoricani non la pensano così. Pensano che una volta diventati stato ci sarà competizione e non è affatto escluso che a rappresentare l’isola al senato andranno due repubblicani…

RP: Ma ci manderanno i loro stupratori! Non hai sentito?

GC: Sì, come ho detto i repubblicani non ce la fanno proprio a non mettersi il bastone tra le ruote da soli con il loro razzismo.

RP: Già. E quindi in parecchi leggendo questa cosa si strapperanno i capelli e diranno «come fa questo razzismo a non essere un problema per chi ha un nome spagnolo, come fanno a pensare sul serio che questo sia il partito per loro»?

GC: Beh, ogni volta che Trump dice qualcosa i democratici rispondono con robe tipo: «È vergognoso! Non ci posso credere! Questo tizio dice cose assurde, come può la gente anche solo prendere in considerazione le sue idee». Ma mi pare che tutta questa indignazione non abbia portato i democratici molto lontano. E mentre Trump dice tutte le cose ridicole che dice sugli immigrati messicani, la verità è che va anche – lui o i suoi colleghi di partito – nelle chiese evangeliche, o fa visita alle associazioni d’imprenditori ispanici e gli dice che alleggerirà le regolamentazioni, o ancora ripete come sotto la sua amministrazione sia cresciuta la percentuale di latini che hanno comprato casa, e il loro reddito mediano, e come la disoccupazione sia calata.

È quasi come fosse in split screen. Da una parte urla un sacco di schifezze sui messicani, ma allo stesso tempo mette in campo uno sforzo non indifferente e reale per prendersi i loro voti. I democratici vedono solo quello che fa davanti alla telecamera, ma ignorano tutto il resto. Una cosa evidente in molti elettori di Trump – non solo latini, ma sicuro riguarda parecchio anche i latini – è la loro predisposizione a perdonare buona parte degli insulti perché in fondo, dicono, lui rappresenta i loro valori, per esempio quando si parla di economia e istruzione, o di “libertà religiosa”. Queste identità partigiane si sono consolidate nel tempo e rendono impossibile immaginare che queste persone finiranno mai a votare democratico. Poi certo mi colpisce ogni volta che i latini evangelici possano pensare che Trump sia il loro portavoce, considerata la sua condotta nella vita privata.

RP: Beh, sai, Ciro era un pagano, ma fu mandato da Dio per salvare gli ebrei.

GC: Esattamente. Alla fine è lui che sceglie l’emissario.

RP: È sempre la solita storia, che la gente è complicata. E tutta la faccenda dell’inevitabilità demografica è… beh, la parola giusta è riduzionista. Ci fa piacere credere che il mondo sia semplice.

GC: Quando alla fine è tutto incredibilmente complesso. Però giornalisti e ricercatori hanno cominciato a mettere in discussione alcune delle loro convinzioni. E questo è motivo di frustrazione per certa sinistra, in parte perché ovviamente non è facile dover ridiscutere il proprio intero sistema di principi sulle interazioni tra razza, classe e politica. Ma è anche l’unico modo di uscirne. Bisogna spazzare la polvere e porsi nuove questioni se vogliamo davvero capire questa fase storica. E penso anche che sia necessario farlo senza andare all’estremo dall’altra parte – finendo a dire ah adesso i latini sono tutti conservatori, o quello che era sinistra ora è destra, e viceversa. Non ha molto senso rimpiazzare i vecchi stereotipi con nuove macchiette.