ELETTORALIA 

Dentro il mancato endorsement dei Teamsters

Il sindacato degli autotrasportatori e della logistica ha negato il sostegno ai democratici per la prima volta in quasi trent’anni, ma attenzione a trarne indicazioni sull’orientamento generale dei colletti blu americani

BRUNO SETTIS
30/09/2024

 


Il 18 settembre, la International Brotherhood of Teamsters ha annunciato ufficialmente che non avrebbe dato il suo endorsement a nessuno dei due candidati alla presidenza. Negli ultimi ventotto anni il sindacato dei lavoratori degli autotrasporti e della logistica non si era mai astenuto, facendo ogni volta sentire il peso dei suoi 1.300.000 iscritti sulla contesa elettorale. E dal 1992 aveva quasi sempre sostenuto candidati democratici – unica eccezione appunto il 1996, quando le politiche commerciali di Clinton avevano indispettito molte organizzazioni sindacali.

Risale ad ancor prima il legame storico dell’IBT con Joe Biden. Non è necessario prestar fede al controverso libro di memorie del 2004 I Heard You Paint Houses, in cui l’ex teamster e malavitoso Frank Sheeran racconta di aver organizzato lo sciopero di Wilmington, Delaware, che nel 1972 contribuì alla vittoria di Biden nella sua prima corsa per il Senato – l’episodio non c’è nel film che ne ha tratto Martin Scorsese, The Irishman, 2019 – per ricordare che lungo tutta la sua carriera Biden ha visto nei sindacati interlocutori irrinunciabili e alleati preziosi. Si è inserito, insomma, nel solco di quella tradizione che considera una sorta di populismo “pro-labor” come colonna portante delle coalizioni sociali su cui fondare non solo le vittorie elettorali, ma l’intera visione politica del Partito Democratico, la sua difesa della “middle class” e di un’economia equilibrata tra business e lavoratori.

Biden ha portato questa tradizione fin dentro alla Casa Bianca, definendosi «the most pro-union president» e rivolgendosi costantemente, tra gli altri, proprio ai Teamsters. Uno degli obiettivi del vasto pacchetto di stimolo economico varato nel 2021 dalla nuova amministrazione, l’American Rescue Plan, era infatti proteggere i fondi pensione sindacali. Intenzione che è stata confermata anche con misure successive, fino a quelle di pochi mesi fa, che hanno messo in sicurezza tra gli altri i fondi proprio degli autotrasportatori. Nei primi mesi del 2024, quindi, Biden non si è risparmiato per cercare di assicurarsi il supporto dei Teamsters.

Ciò nonostante, la notizia dell’endorsement mancato non è certo una sorpresa. La presenza, a luglio, del segretario dei Teamsters Sean O’Brien sul palco della convention repubblicana è stata solo il climax di un lungo corteggiamento da parte di Donald Trump e di una nuova generazione repubblicana, capitanata dal candidato alla vicepresidenza J. D. Vance, che a sua volta propone un proprio populismo “pro-labor” come tassello cruciale per un rinnovamento del conservatorismo che parta da un ritorno alle sue (vere o presunte) origini popolari.

Nelle settimane successive, cercando di parare le molte critiche che si stavano accumulando dentro e fuori il sindacato, O’Brien ha più volte lamentato di non essere stato invitato anche alla convention democratica e rivendicato la necessità di un approccio non-partisan: ascoltare tutti e farsi ascoltare da tutti. Atteggiamento, questo, che per O’Brien è anche la prosecuzione dello sforzo profuso nei primi due anni della sua reggenza per scalzare la vecchia guardia del sindacato, rappresentata dal suo predecessore James P. Hoffa, figlio di Jimmy, segretario dal 1998 al 2022 e legato ai democratici.

Le motivazioni addotte dalla IBT per non dare il tradizionale endorsement sono, infatti, di due ordini. Nessuno dei due candidati, spiega il comunicato, offre sufficienti garanzie rispetto alle richieste avanzate dagli autotrasportatori, specie per quanto riguarda le vertenze in corso e il diritto di sciopero. Inoltre, e più rilevante, tra gli iscritti non è emerso un chiaro orientamento a favore dell’una o dell’altro candidato.

La IBT si vanta infatti – O’Brien lo ha fatto a più riprese – di arrivare all’endorsement come esito di un processo non verticistico ma democratico, di coinvolgimento e ascolto dei membri. La procedura prevede un percorso di assemblee e sondaggi tra gli iscritti, su scale e attraverso metodi diversi. Le scale: sono coinvolte sezioni locali (local) e coordinamenti di area (joint council) o statali. I metodi: dopo quasi un anno di presidential roundtable con i militanti, i sondaggi si sono svolti prima con assemblee perlopiù in presenza, tra aprile e luglio, e poi, da dopo il ritiro di Biden al 15 settembre, per via elettronica, con la partecipazione di circa 35.000 votanti. Infine, nella settimana prima del 15 settembre, si è completato il processo con un’indagine telefonica su un campione piuttosto ridotto di circa 900 persone. Assieme e a supporto del comunicato, la IBT ha pubblicato un voluminoso rapporto di sintesi con tutti i risultati delle diverse tappe.

Si è trattato dunque di un processo lento, che ha attraversato il momento del cambio di cavallo in corsa da parte dei democratici. E proprio da ciò può venire un primo elemento di preoccupazione per il partito, dato che Biden aveva registrato, a livello nazionale così come in quasi tutti i singoli stati, un consenso (44,3%) superiore a quello di Harris (34%). Per converso, Trump balza dal 36,4 al 59,6% nel secondo giro di sondaggi, un dato che può corrispondere a quello, riportato da una recente ricerca del New York Times, del 54% dell’apprezzamento che riceve dalle persone senza titolo di studio universitario, che sono la grande maggioranza nei Teamsters. Significativo anche il calo dall’8,3 al 2% dell’indeterminato e difficilmente interpretabile «other», in cui probabilmente confluiscono candidati terzi, indecisi e quant’altro. Un ulteriore motivo di preoccupazione sta nel distacco molto marcato tra il consenso per Biden e quello per la sua vicepresidente in alcuni stati chiave della corsa elettorale, sia dove i risultati di Harris sono al di sopra della media nazionale (Arizona, Georgia, Nevada, Michigan e Wisconsin), sia dove sono al di sotto (North Carolina e Pennsylvania).

A prendere per buoni questi risultati – cosa a dire il vero sconsigliata da vari analisti, specie di parte democratica, che hanno obiettato alle tempistiche e ai metodi dei sondaggi – il bilancio complessivo apparirebbe abbastanza chiaro. Il venir meno del legame di fiducia personale con Biden, in buona sostanza, sembra aver portato al rovesciamento dei rapporti di forza tra i candidati all’interno dei Teamsters.

Il percorso che ha portato al non-endorsement e quanto accaduto in seguito rivelano, a ben guardare, confusione e frammentazione. Già i primi incontri di O’Brien con Trump e la sua partecipazione alla convention repubblicana avevano suscitato espliciti malumori e aspre prese di distanza da parte di altri dirigenti dello stesso sindacato, a cominciare dal vicepresidente, John Palmer, e dal Black Caucus dei Teamsters, che già a metà agosto si era affrettato a dichiarare il proprio appoggio a Harris (e un esponente in pensione del Black Caucus del Wisconsin è apparso sul palco della Convention democratica dove O’Brien non è stato invitato). Nei giorni successivi all’annuncio di O’Brien, e quindi in polemica aperta con la dirigenza nazionale, diversi joint council e local hanno fatto lo stesso, anche in stati in bilico, come Pennsylvania o Michigan. A questo si sono aggiunte le critiche di alcuni maggiorenti del sindacato, come l’ex segretario Hoffa. Stupisce, in questo contesto, il silenzio delle ali “di sinistra” interne: sia quella storica, i Teamsters for a Democratic Union, che l’acquisizione più recente, l’Amazon Labor Union. Nel complesso, comunque, si delinea un’ampia rivolta contro la dirigenza, dagli esiti difficili da prevedere in un sindacato noto per la sua storia di ritorsioni e vendette interne.

La speranza dei democratici è allora che le prese di posizione delle dirigenze locali siano più mobilitanti e convincenti che non quelle della dirigenza centrale: complessivamente i joint council e le local pro-Harris rappresentano un milione d’iscritti, mentre i numeri su cui si sono svolti i sondaggi sono, si è visto, piuttosto ridotti rispetto alla massa dei Teamsters. D’altro canto, proprio questo permette a Trump e ai suoi di continuare a rivendicare che i lavoratori, anche sindacalizzati, stanno con loro, mentre sarebbero i soli dirigenti a non vederli di buon occhio – una retorica comune, peraltro, anche a varie destre europee.

La mappa degli endorsement sindacali non è certo lineare: non mancano casi di candidati repubblicani al Congresso, meno appariscenti di Vance, come Mike Lawler nella Hudson Valley (New York) o Brian Fitzpatrick in Pennsylvania, che hanno ottenuto donazioni e appoggio da parte di alcuni sindacati delle rispettive zone, i quali però rimangono fedeli ai democratici per quanto riguarda l’elezione del presidente. Sul versante opposto, ci sono anche candidati democratici che hanno ricevuto il sostegno dei sindacati delle forze dell’ordine, solitamente orientati verso i repubblicani, e appunto dei Teamsters.

 Ciò non deve far dimenticare che il grosso delle organizzazioni sindacali supporta inequivocabilmente Harris: dall’American Federation of Teachers agli United Auto Workers, passando per l’American Federation of Labor-Congress of Industrial Organizations, la federazione più grande, che conta circa 12 milioni e mezzo d’iscritti. Su questo versante, la complessa rete che lega il mondo sindacale al Partito Democratico, fatta di affiliazioni e lealtà dalle radici profonde tanto quanto di scambi, scommesse e promesse di medio e breve periodo, sembra essere stata consolidata dalla presidenza Biden.

Cosa si è spezzato, allora, con i Teamsters? Fuorviante ricorrere ai luoghi comuni sulla classe operaia che si sposta a destra, che tendenzialmente scavalcano ogni interrogativo sull’effettiva composizione delle classi lavoratrici. Si può guardare a due fattori contingenti e uno strutturale. In primo luogo, l’opportunismo, non certo nuovo, di una dirigenza attenta a tenersi aperte tutte le porte, anche a costo di fare orecchie da mercante alle promesse di Trump e i suoi di limitare i diritti sindacali di organizzazione e sciopero (il comunicato del 18 settembre non ignora queste promesse, anzi le mette a confronto con l’impegno di Harris a favore di questi diritti, ma poi considera entrambe le proposte parimenti insufficienti). Un altro problema è la difficoltà di Harris a riempire di contenuti la sua candidatura e a costruire o rivitalizzare legami di cui Biden era divenuto il simbolo, logoro forse, ma riconoscibile.

Più ampiamente, infine, la peculiare combinazione di vischiose continuità e novità che caratterizza i Teamsters e il loro ruolo nell’economia statunitense: un sindacato antico, nato nel 1903 per rappresentare i conduttori di carro, via via allargatosi a inglobare un’ampia gamma di mestieri in un settore di punta, e in continua trasformazione, come quello della logistica (da ultimo, con l’inclusione dell’Amazon Labor Union nel 2022). A fronte della crescente partecipazione di nuove tipologie di lavoratori e lavoratrici (la presenza femminile è decisamente più bassa che in altre organizzazioni, ma in continua crescita, dal 14,6% del 2010 al 19,2% del 2021), tuttavia, l’IBT dimostra ancor più difficoltà degli altri sindacati a rinunciare all’immagine monolitica di organizzazione di lavoratori maschi bianchi. Proprio questo ne fa un terreno di contesa tra due populismi “pro-labor” di segno opposto, convergenti sul mito fondante della prosperità americana ma divisi su chi dovrebbe essere ammesso a beneficiarne e sugli strumenti che possono essere usati per difenderla ed eventualmente distribuirne i frutti, siano gli strumenti della politica economica e delle politiche del lavoro, o quelli dello sciopero e dell’organizzazione sindacale.