ELETTORALIA
Capire Kamala Harris
Chi è davvero e dove è diretta la candidata democratica?
LORENZO COSTAGUTA
15/09/2024
Più passano le ore dal dibattito di martedì sera, più si consolida il consenso circa la vittoria di Kamala Harris nei confronti di Donald Trump. Secondo una dinamica rodata, almeno per questo tipo di eventi, quasi più che all’accadimento in sé è all’eco mediatica che bisogna fare attenzione. È quella che genera conversazione, interesse, massa critica. In questo caso, più circolavano le clip dei due, e più se ne dissezionavano le performance nel dettaglio, più si arrivava a una conclusione chiara: Harris preparata, in controllo, statista; Trump livoroso, sulla difensiva, nell’angolo.
La posizione in cui si trova Kamala Harris è un unicum dal punto di vista storico. Non esiste precedente in cui la nomination alla presidenza, la più influente carica politica al mondo, sia stata assegnata nel modo in cui lo è stato fatto quest’anno. Il processo per arrivare alla nomination è lungo, complesso, difficile. Solo i politici e le politiche migliori possono aspirarvi. E sono decine i candidati e le candidate perfette sulla carta, ma del tutto incapaci di imporsi al momento opportuno. Harris questa cosa la sa bene, essendo stata una di loro nel 2020. E ciononostante, e malgrado un quadriennio da vicepresidente tutt’altro che impeccabile, Harris si trova alle soglie di quello che potrebbe essere un evento dalla portata storica immensa: diventare la prima presidente donna degli Stati Uniti d’America.
Tra i tanti sconvolgimenti della pazza estate della politica americana appena trascorsa, la meteorica, improbabile e inaspettata ascesa di Kamala Harris è quello che ancora si fa più fatica a mettere a fuoco. A tornare a inizio estate, nemmeno il più ottimista analista democratico avrebbe mai scommesso sullo scenario in cui ci troviamo adesso. Un cambio di candidato avvenuto tardissimo. Forzato, imposto a un presidente in carica. Un adagiarsi sulla candidatura di Harris sostanzialmente per mancanza di alternative percorribili. A fronte di queste pessime premesse, lo sbocciare di Harris come candidata carismatica, sicura di sé, finalmente capace di portare sul palcoscenico la sua storia e di prendersi il partito sulle spalle. Il dibattito è l’ultimo capitolo di un’estate trionfale per Harris.
Che cosa è successo, esattamente? Siamo noi a non aver capito che Kamala Harris era pronta, prontissima a fare la candidata alla presidenza? Oppure questo è un momento di abbaglio collettivo, frutto dell’entusiasmo post-abbandono di Biden e del terrore che Trump possa rivincere le elezioni?
L’origine di tanta confusione va cercata nel profilo sfuggente, fuori fuoco, sfumato di Harris come presenza nella politica americana. Fa strano scriverlo di una persona che per quattro anni è stata vicepresidente, ma la realtà dei fatti è che ancora oggi capire l’ideologia, la prospettiva e il potenziale contributo politico di Harris è pressoché impossibile. Entrata in Senato nel 2017, in simultanea con l’inizio della presidenza Trump, Harris ha passato quattro anni a definire la propria immagine in termini di binaria opposizione con l’amministrazione in carica. Alla ribalta grazie alle cross-examination di molti nominati di Trump (il giudice Brett Kavanaugh in primo luogo), Harris non ha legato il suo nome a specifiche iniziative legislative che ne chiarissero l’ideologia politica.
Lo stesso si può dire per la sua esperienza da vice di Biden. Quello del vicepresidente è un ruolo per sua natura complesso, allo stesso tempo sotto i riflettori ma del tutto privo di iniziativa politica. I vicepresidenti fanno quello che i presidenti ordinano loro di fare. Si rendono utili come meglio possono, attendendo di essere consultati o che a loro vengano assegnati dei compiti. E così è stato per Harris, che ha trascorso i suoi tre anni tra chiari fallimenti, come la missione affidatagli da Biden in centro America per contrastare le cause dell’immigrazione verso gli Stati Uniti, deboli cenni di vita sul tema dell’aborto e in politica estera, a malapena notati dai media nazionali, e una generale indifferenza nei propri confronti. Indifferenza da parte dei membri del Congresso, che non la reputavano un tramite utile con la Casa Bianca; indifferenza di Biden stesso, che l’ha regolarmente esclusa dalle scelte più delicate (pur mantenendo cordialissimi rapporti professionali ). The Kamala Harris Problem, titolava l’Atlantic nell’ottobre del 2023, un ritratto non tanto negativo quanto desolante dell’esperienza di Harris da vicepresidente.
La biografia di Harris non solo è sfolgorante, ma è anche l’incarnazione stessa del mito americano. Figlia di madre indiana e padre giamaicano, entrambi immigrati di prima generazione arrivati in America da studenti, Harris è cresciuta nella Bay Area del movimento per i diritti civili e delle Pantere Nere. Il ricco tessuto sociale di una famiglia allargata a sopperire alla separazione dei genitori, la possibilità di poter studiare in alcune delle università più iconiche del paese (come Howard University, storico campus nero a Washington DC), e infine una carriera professionale costellata di traguardi storici, come l’essere stata la prima donna nera e di origine indiana a ricoprire sia la carica di district attorney che quella di attorney general della California.
Giornalisti e commentatori hanno scandagliato gli anni da procuratrice per cercare indizi utili a inquadrare Harris la politica, ma si sono scontrati contro la complessità di un’operazione forse impossibile in quanto tale. Come scrive su Politico Ankush Khardori, un ex procuratore federale, «l’effettivo lavoro dei procuratori è molto più delicato di quanto i commentatori politici – e persino gli stessi procuratori – spesso fanno intendere nell’arena politica». Harris «non è stata la caricatura procuratrice ‘hard on crime’ criticata dalla sinistra, né l’attivista dal cuore tenero descritta dalla destra». È stata invece una figura complessa, sicuramente più rigida di suoi colleghi di sinistra in termini di sicurezza e intervento della procura nelle vite private delle persone, ma con convinzioni etiche e di principio che l’hanno portata a complicare il suo record e l’hanno condotta all scontro con chi, a livello teorico, si trovava nella sua area del Partito Democratico.
Per completare il suo percorso di candidata perfetta, ad Harris manca un tassello chiave: definire il suo programma politico. Ancora non si è capito se Harris si muoverà in continuità con Biden, aumentando il ruolo del governo federale e puntando apertamente a un ritorno alle epoche del New Deal e della Great Society di LBJ, oppure se abbia intenzione di prendere un altro corso. Un enigma, l’ennesimo, che contestualizzato nella lunga parabola politica di Harris ormai non deve più stupire. In una campagna così generalmente avara di proposte politiche, la scarsa definizione del programma potrebbe non essere un problema. Qualora Harris dovesse vincere le elezioni, allora il discorso sarà diverso.