ELETTORALIA
Lo stato della corsa/3. Election Day Edition
Come vince Trump e come vince Harris. Più indecisi, herding e simulazioni computerizzate
MARIO ALOI
05/11/2024
Manca ormai pochissimo alla chiusura dei seggi americani e sarà il caso di dare un’ultima occhiata alla situazione, per capire come orientarci lungo la notte elettorale (e forse anche oltre): sondaggi, dove guardare, cosa aspettarsi, eccetera eccetera. Dal punto di vista della previsione, il piano di questa elezione non si è mai davvero inclinato, nessuno dei due candidati ha sviluppato più forza di trazione rispetto all’altro. Ci sono state oscillazioni, certo, ma mai davvero significative.
L’ho già scritto una volta, ma vale la pena ripeterlo: è la prima elezione dal 1960 in cui il margine nazionale tra i candidati non ha superato i cinque punti percentuali nemmeno una volta e anche i modelli probabilistici, da quando esistono, non sono mai stati così incollati all’ordine del 5o e 50. Come lanciare una moneta.
Il fatto che la fase di approccio al voto sia caratterizzata da profonda incertezza, però, non significa necessariamente che a conteggio ultimato i due contendenti saranno vicini come appaiono oggi.
Il quadro di partenza
Cominciamo allora da regole e quadro di partenza. Come noto, negli Stati Uniti non diventa presidente chi prende più voti in tutta la nazione (il cosiddetto voto popolare), ma chi ottiene il maggior numero di grandi elettori su base statale. Ogni stato ne assegna un numero variabile con sistema maggioritario: chi vince anche di una sola preferenza prende l’intera la posta in palio. I grandi elettori sono in totale 538, quindi per vincere ne servono almeno 270.
Ancora prima di partire sappiamo già come finirà in una maggioranza di stati: in parte perché i sondaggi attribuiscono un vantaggio incolmabile all’uno o all’altro candidato, e in parte perché ne conosciamo caratteristiche demografiche e storia. Non ci sono dubbi, per esempio, che la California voterà democratico, o che l’Alabama voterà repubblicano. Questo significa che non abbiamo bisogno di tener d’occhio l’andamento delle rilevazioni e del conteggio ovunque, ma solo in un ristretto gruppo di stati in bilico.
Quali sono questi stati? Li abbiamo passati in rassegna più volte, ma ecco un ultimo riepilogo, con annessa la situazione finale nelle medie dei sondaggi: Michigan (Harris +1), Wisconsin (Harris +1,2), Pennsylvania (Trump +0,1), Nevada (Trump +0,6), Arizona (Trump +2,4), Georgia (Trump +1) e North Carolina (Trump +1,1).
Tra la fine di settembre e la prima metà di ottobre c’è stata una leggera ma costante crescita dei repubblicani, sia a livello nazionale che negli stati in bilico. Da un paio di settimane, però, la situazione si è stabilizzata. Il quadro, sin dall’inizio poco variabile, è ormai quasi completamente statico. Vediamo quindi la mappa di partenza, con stati e relativi grandi elettori sicuri.
Harris ne ha già in saccoccia 226, Trump 219. Ancora una volta sostanziale parità. Ma a dispetto della piattezza di tutte le previsioni che vediamo in giro, il pareggio di partenza potrà essere spezzato per numerose vie, anche molto diverse tra loro. Dipenderà da come i 7 stati in bilico di cui sopra andranno a sistemarsi nella colonnina dell’una o dell’altra parte. Le combinazioni possibili non sono infinite, ma sono comunque parecchie. E ovviamente alcuni di questi incastri sono più probabili di altri.
Come vince Harris
Per Kamala Harris e i democratici il corridoio più agevole verso la presidenza passa tra il Midwest e il Northeast. Più nello specifico, per l’ormai notorio trittico di stati che ogni quattro anni sta al centro di tutte le mappe e analisi elettorali americane: Michigan, Wisconsin e Pennsylvania.
È il varco più facile per almeno due ragioni. Primo: con l’eccezione del 2016, quando andarono a Trump per qualche migliaio di voti ciascuno, questi tre stati votano democratico dal 1992. Secondo: Harris è stata quasi sempre avanti nei sondaggi. Un vantaggio esiguo, ma stabile. Solo la Pennsylvania ultimamente si è staccata dal gruppo, muovendo leggermente verso i repubblicani. Si tratta però di un’oscillazione minima, che potrebbe essere mero rumore statistico. Anche perché sempre dal ’92 questi stati votano compatti, ogni volta tutti uguale. Sono territori simili, con caratteristiche demografiche comparabili. Certo, non possiamo escludere che si separino, ma rimane più probabile che non lo facciano. Inoltre, se guardiamo gli altri stati della regione, a loro volta in qualche modo assimilabili, ci sono segnali che un po’ tutto l’asse che va dal Midwest al Northeast possa regalare a Harris qualche punto in più rispetto al 2020 (ci torniamo).
Insomma, probabile non significa sicuro (chiedere appunto Clinton 2016), ma se la serata dovesse girare in favore dei democratici, quasi sicuramente comincerà a farlo da queste parti. E basterebbe, perché se ai 226 grandi elettori di partenza Harris dovesse aggiungere i 19 della Pennsylvania, i 15 del Michigan e i 10 del Wisconsin, ecco che già arriverebbe alla soglia dei 270. Vittoria sul filo del rasoio, ma pur sempre vittoria.
Se Harris dovesse vincere tutti e tre questi stati, però, è possibile che le rilevazioni abbiano sottostimato il suo consenso un po’ ovunque. I sondaggisti alla fine usano metodi simili e gli errori che fanno sono spesso correlati. Fosse questo il caso, la sua vittoria potrebbe farsi più larga. Il primo stato in ordine di probabilità da aggiungere alla colonnina blu sarebbe probabilmente il Nevada. Anche lì le serie storiche recenti dicono democratico: dal 2008 con Obama, il partito di Harris ha sempre vinto. E anche lì per la maggior parte del tempo da quando è subentrata a Biden, la candidata dem è stata avanti. Solo nelle ultime settimane è passata a inseguire nelle medie, ma sono distacchi decimali, per cui vale il discorso fatto a proposito della Pennsylvania.
Da qui in poi parte tutta una catena di possibili risultati sempre più favorevoli ai democratici, fino a quello in cui la loro candidata prende ognuno dei sette stati in bilico, arrivando così a quota 319 grandi elettori, con Trump che a quel punto rimarrebbe fermo ai 219 di partenza.
Quello che si muove lungo l’asse nord è solo l’incastro più probabile per Harris, non certo l’unico possibile. Nulla impedisce, per esempio, che la Pennsylvania vada a Trump, come sembrano suggerire le ultime rilevazioni, ma Harris riesca comunque a vincere compensando con North Carolina e Nevada. In questo caso chiuderebbe il conto a 273.
Nessuna delle 128 combinazioni con cui i sette stati in bilico possono distribuirsi tra i due candidati si può veramente escludere. Per questioni legate alla correlazione tra i movimenti di alcuni stati, o di alcuni blocchi di stati, certe sequenze di accoppiamenti sono più probabili di altre – ma tutti i distacchi ballano intorno alla linea del pareggio, ben dentro al margine d’errore, ogni stato può davvero finire da una parte come dall’altra.
Come vince Trump
Siccome questa è un’elezione dalle simmetrie quasi perfette, il corridoio più diretto per Trump è complementare a quello di Harris. Se i democratici fanno prima passando per la rustbelt, l’ex presidente ha buone chance di accumulare la base di delegati su cui costruire un’eventuale vittoria nella sunbelt. Gli altri passano più a nord, mentre lui deve tagliare attraverso il sud del paese, prendendo in sequenza Arizona, North Carolina e Georgia.
Perché? Due ragioni, di nuovo. Prima: tutti e tre questi stati sono tradizionali roccaforti repubblicane. Lo dicono le serie storiche. Dal 1980 il North Carolina ha votato democratico solo una volta, con Obama nel 2008. Discorso simile per Georgia e Arizona, anche se qui l’eccezione è più recente. Quattro anni fa Biden li vinse entrambi, ma per trovare l’ultimo democratico prima di lui bisogna andare indietro fino al ’96 per l’Arizona e al ’92 per la Georgia. Secondo motivo: Trump sta avanti nei sondaggi, e pure con margini rispettabili – almeno per gli standard di questa tornata elettorale. Come per Harris e gli stati del Midwest/Norheast, diciamo che se la serata girerà a favore dei repubblicani, lo farà probabilmente partendo da qui.
La mappa sopra però è chiara, non basta. Con Arizona (11), North Carolina (16) e Georgia (16), Trump si ferma a 262 grandi elettori, 8 in meno del goal. Dove trovare quel poco che manca? A completare la fascia del sud ci sarebbe il Nevada. Ha una tradizione democratica, almeno recente, ma non è da escludere che i repubblicani lo portino a casa, in fondo i sondaggi li danno avanti. Ma comunque non ci siamo ancora, perché vale solo 6 grandi elettori. Bisogna guardare più a nord, in territorio – probabilistico – nemico. Stando agli indici di gradimento, lo stato più abbordabile sembrerebbe la Pennsylvania, dove da qualche settimana Trump è dato addirittura in vantaggio. Con 19 grandi elettori è pure il più pesante tra tutti quelli in bilico. Se aggiungono la Pennsylvania i rossi varcano finalmente la soglia dei 270, che ci mettano anche il Nevada oppure no. Con fa 287, senza 281. Ma poco cambia, Trump diventa presidente. Di nuovo.
Qui è doveroso aprire una parentesi. Grazie al suo peso e all’altissimo livello d’indecidibilità, la Pennsylvania è probabilmente lo stato più importante di tutti. Praticamente l’unico che spostandosi, anche da solo, può togliere l’elezione a una parte per darla all’altra, e viceversa. È quello che gli analisti americani indicano come più probabile tipping point state – cioè lo stato che assegnerà il punto decisivo, il duecentosettantesimo. Possibile che abbiate letto questa cosa in forme variabili un po’ dappertutto negli ultimi giorni. Ora con le mappette sopra avete forse pure messo a fuoco il perché. La Pennsylvania è l’unico stato che in quasi nessuno scenario i due candidati possono permettersi di mollare. Quando ne annunceranno il risultato, cominceremo a capire parecchio di come sta girando la serata. Chiusa parentesi.
Da qui, come per Harris, anche Trump può vincere accumulando più o meno punti. Può aggiungere un solo stato in bilico a quelli necessari per passare la linea dei 270, oppure prenderli tutti e sette, chiudendo a 312. Succedesse, questa volta sarebbe Harris a rimanere al palo con i soli 226 grandi elettori di partenza.
Ovviamente anche per la vittoria repubblicana vale il discorso fatto sopra. Questa è la via più diretta, ma nulla può essere escluso. Potrebbe finire pure al contrario, con lo scenario più facile che va pancia all’aria e si ribalta: Trump vince al nord, Harris nel sud – a dispetto di tutti i calcoli incrociati sulle probabilità.
Sondaggi
Uno dei segnali che lungo l’era Trump il contesto politico americano si è sempre più spaccato in due ma le due parti si sono anche via via equilibrate è la quota d’indecisi. Nel 2016, il giorno delle elezioni erano il 13%, un numero enorme – che poi è la ragione per cui i sondaggi non potevano prenderci: se una porzione di elettorato del genere si sposta all’ultimo momento verso uno dei due canditati, qualunque risultato dessero le rilevazioni prima del voto può essere ribaltato. E stando alle analisi post-mortem è esattamente quello che successe allora. Nel 2020, però, il numero complessivo si era già ridotto sensibilmente e adesso quasi non ce ne sono più. Di qui il quadro iper-stabile, con variazioni minime nei sondaggi. Dopo otto anni di Trump quasi tutti hanno ormai un’idea piuttosto chiara su di lui e si sono posizionati. A favore o contro, ma il margine d’incertezza è pressoché nullo.
In un contesto di questo tipo chiedere ai sondaggi di vedere il millimetro sarebbe assurdo. Si tratta di approssimazioni statistiche, non possono fare il microscopio. Le ultime due tornate presidenziali sono state decise per qualche migliaio di voti in un numero limitatissimo di stati. Margini che è faticoso distinguere nel conteggio finale, figuriamoci se possono vederli i sondaggi. Che sono appunto approssimazioni, quindi più o meno imprecise (cioè più o meno sbagliate) per natura.
Proprio perché questo errore è in una certa misura strutturale però – nel senso, si verifica ogni volta, è inevitabile – possiamo dire che, in una situazione di sostanziale parità probabilistica come quella attuale, l’elezione andrà al candidato che le rilevazioni stanno sottostimando. Se sopravvalutano il consenso di Trump, per una qualunque ragione di pesatura del campione o altro, vince Harris. Se invece a essere sovrastimata è Harris, vince Trump. Anche perché con i distacchi esilissimi che vediamo nei grafici da mesi, un errore dei sondaggi in linea con le medie storiche basterà a spostare ogni singolo stato in bilico. Non serve che accada nulla di eccezionale insomma, basta uno sfasamento medio – di nuovo, di quelli che si verificano sempre.
Il problema è che misurare direzione e intensità di questo errore è impossibile fino a conteggio ultimato. Per fare la comparazione ci servono i numeri reali. Sappiamo che nelle ultime due tornate i sondaggi hanno sempre sottovalutato Trump, per una serie di problemi legati alla capacità/possibilità di raggiungere e interrogare alcune frange del suo elettorato. Ma questo non ci dice nulla su cosa accadrà quest’anno. Le difficoltà degli istituti demoscopici a intercettare certo nuovo consenso repubblicano sono state al centro del dibattito pubblico per anni e può darsi che tutta questa pressione sul tema abbia spinto i sondaggisti a sovra-correggere, finendo oggi a sottostimare Harris. Non c’è davvero modo di dirlo in anticipo.
Una cosa però la sappiamo, o almeno sappiamo che accadrà più probabilmente che no. Lo abbiamo accennato sopra, siccome i sondaggisti tendono a usare metodi simili, i loro errori mostrano spesso un qualche grado di correlazione. In altre parole, se le rilevazioni sottistimano Trump in Arizona, è difficile che lo sovrastimino in Michigan. Così è andata le ultime due volte, la direzione dell’errore era identica su tutto lo spettro.
Questo ci dice una prima cosa importante, da tenere a mente. Nonostante l’incertezza di tutta la fase di avvicinamento all’elezione, con distacchi così ridotti gli scenari finali più probabili sono paradossalmente quelli in cui uno dei due candidati prende tutti e sette gli stati in bilico. Le vittorie più larghe. Nel senso che se i territori contesi stanno tutti entro un margine di due punti, uno sfasamento di due punti e qualcosa a favore di Trump sposterà l’intero blocco dalla sua parte. Al contrario, se l’errore dovesse pendere verso Harris, sarà lei a portarsi a casa tutto il pacchetto. Lo vediamo anche nelle simulazioni computerizzate, i famosi modelli probabilistici. Nate Silver, ad esempio, dopo aver imbottito la sua macchina di dati e parametri, simula l’elezione 40.000 volte, per poi vedere quali combinazioni tra le 128 di cui sopra vengono fuori con maggiore frequenza. In ciascuno degli ultimi giri, l’esito più gettonato è Trump che si prende ogni singolo stato in bilico (20% delle volte). Il secondo? Tutti e sette a Harris (13,9%).
Un’ultima cosa, proprio su questi margini sottilissimi. In molti stanno maturando il sospetto che i sondaggisti si siano messi a fare quello che gli americani chiamano herding. Herding vuol dire andare con il gregge. Per evitare di passare per quelli che hanno sballato di brutto, ci sono istituti che non pubblicano i risultati anomali, quando gli escono, oppure se li pubblicano è solo dopo aver torturato i parametri di pesatura a tal punto da averli fatti rientrare nelle medie. Un’altra conseguenza della pressione che è stata messa su questa gente negli ultimi anni. Non che un comportamento del genere sia scusabile, ma la ragione sta probabilmente lì. Il risultato è che si accumulano risultati tutti uguali.
Da dove viene questo sospetto? Ve lo faccio spiegare ancora da Nate Silver (sì, sempre lui, ma dopo anni a seguire elezioni americane impari di chi ti puoi fidare e di chi invece no, specie sui numeri e come leggerli):
Il campione mediano dei sondaggi negli stati in bilico è di 800 persone. In un sondaggio che sta 49 a 49 su un campione di 800 persone – presumendo che il 2 percento vada a partiti terzi – il margine d’errore teorico sul distacco tra Harris e Trump è ±6 punti. Se vi suona più alto di quanto avreste pensato, è perché il margine d’errore dichiarato di solito è relativo alla porzione di voto per ogni singolo candidato. Ad esempio, su 800 persone è ±3 punti per Trump, e poi lo stesso per Harris. Se Trump prende il 52 percento invece del 49, significa che Harris scenderà specularmente al 46. Quindi il margine d’errore sulla differenza tra i due è ±6.
Questo vuol dire che se i sondaggisti stessero facendo un lavoro onesto, dovremmo avere molti più risultati fuori dallo schema di quanti ne vediamo adesso – poco importa se la gente adora lamentarsene su Twitter. Nel nostro database oggi pomeriggio c’erano 249 sondaggi dai sette stati in bilico. […] Quanti di questi davano un risultato a favore dell’uno o dell’altro candidato entro i 2,5 punti, cioè abbastanza vicino da poter essere chiamato pareggio? Beh, 193, o il 78 percento. È molto più di quanti dovrebbero essere in teoria – anche se i candidati fossero davvero perfettamente pari, e quasi certamente non lo sono.
Cotanta premessa mi serve a chiudere sulla notizia che negli ultimi due giorni ha attirato l’attenzione di tutti i commentatori e quindi pure del pubblico. J. Ann Selzer ha pubblicato un sondaggio che dà Harris in vantaggio di 3 punti in Iowa, 47 a 44. Trump ha vinto lo stato di 8 punti nel 2020, l’Iowa non è considerato in bilico, se Harris dovesse vincere lì si tratterebbe di un ribaltone clamoroso. E probabilmente il segnale di una notte “a valanga” per i democratici. Selzer però è una delle sondaggiste più autorevoli del paese. Nelle ultime tornate, non solo presidenziali, è sempre andata vicina in maniera inquietante alle percentuali dei candidati di turno per il suo stato, l’Iowa appunto. Quello che dice non può essere ignorato. E Selzer è una grande sondaggista anche perché non fa herding. Pubblica pure i risultati strani. Tipo questo.
Ora qui i tre punti di vantaggio per Harris son ben dentro il margine d’errore, ed è molto probabile che sarà comunque Trump a vincere lo stato. Ma questo sondaggio non c’interessa di per sé. Il risultato è degno di attenzione per quello che potrebbe rivelare su altri stati con caratteristiche simili. Già, ancora loro: Michigan, Wisconsin e Pennsylvania – che invece in bilico lo sono eccome, e come abbiamo visto prima saranno quasi sicuramente decisivi.
È risaputo che chi fa herding tende a farlo negli stati contesi, perché stanno sotto i riflettori, ma non necessariamente negli altri meno esposti. Quindi un buon modo per cercare di capire se questi continui pareggi siano davvero almeno un po’ arrangiati è notoriamente andare a guardare fuori dal perimetro. Stati appunto simili ma che non sono quei tre specifici. Il sondaggio dell’Iowa, indipendentemente dal fatto che Harris vinca o meno lo stato, potrebbe suggerire che il consenso democratico è effettivamente sottostimato nell’area – leggi: all’interno di un certo elettorato bianco, sovrarappresentato in queste regioni. Se così fosse, c’è caso che il cosiddetto blue wall sia leggermente più blu di quanto non appaia nei sondaggi. E tanto basterebbe perché Harris vinca la partita.
Ormai manca poco al momento in cui potremmo finalmente sollevare il velo su tutte queste speculazioni e cominciare a contare per davvero.