ELETTORALIA
Cosa succede se Trump dovesse perdere
Abbiamo chiesto al giurista americano Lawrence Douglas se l’ex presidente ha un qualche margine per provare di nuovo a ribaltare l’elezione, infilandosi nelle maglie della costituzione
MARIO ALOI
04/11/2024
Ci chiediamo continuamente cosa accadrebbe alla democrazia americana se Trump dovesse vincere. L’ex presidente ha spesso tradito una certa fascinazione per autocrati di vario genere e anche dichiarato che una volta rieletto «farà il dittatore, ma solo per un giorno» – qualunque cosa voglia dire. Molto più in ombra è finita la questione inversa, che pure non sembra irrilevante: cosa succede se al contrario Trump dovesse perdere? Anche qui non si è mai nascosto e ha ripetuto più volte che il voto dovrà essere regolare perché lui ne accetti il responso. Non è una novità, lo disse anche nel 2016 e nel 2020.
Proprio quattro anni fa, il giurista americano Lawrence Douglas, che insegna legge e pensiero sociale all’Amherst College in Massachusetts, scrisse un piccolo saggio – Will He Go? Trump and the Looming Election Meltdown in 2020 – in cui cercava d’immaginare prima delle elezioni come l’allora presidente uscente avrebbe potuto sfruttare i vuoti della costituzione americana per rimanere al potere anche in caso di sconfitta. La realtà non andò troppo lontano dalla sua fantasia, con l’assalto a Capitol Hill e la complicata certificazione della vittoria di Biden al Congresso.
Lo abbiamo raggiunto e intervistato, per capire come Trump potrebbe riprovarci quest’anno.
Nel 2020 Trump era presidente e i problemi riguardavano più il passaggio del potere, la possibilità che la transizione non fosse pacifica. Questa volta non occupa lui la Casa Bianca, ma ha comunque suggerito più volte che potrebbe non accettare il risultato elettorale qualora dovesse favorire Harris e i democratici. Quali sono i possibili scenari da un punto di vista giuridico? Detta in altro modo, che margine ha Trump d’infilarsi nelle maglie della costituzione, del conteggio o della certificazione del voto per creare il caos e tentare di ribaltare l’elezione?
Da un certo punto di vista, questa volta Trump avrà meno margine per cercare di alterare il risultato in caso di sconfitta, soprattutto perché appunto non è più il presidente in carica. Grazie all’Electoral Count Reform Act del 2022, approvato in risposta al caos post-elezioni del 2020, sarà più difficile per lui e i suoi alleati modificare le liste di grandi elettori che andranno a votare il presidente. E sarà anche più complicato per i repubblicani al Congresso sollevare obiezioni alla certificazione dei risultati statali il 6 gennaio del 2025. Detto questo, Trump non è certo privo di strumenti per creare problemi. Molte delle persone che avranno il compito di supervisionare le operazioni di conteggio negli stati che decideranno l’elezione – esponenti di entrambi i partiti che hanno svolto le loro funzioni con grande senso di responsabilità nel 2020 – sono state rimpiazzate con fedelissimi dell’ex presidente. Considerato che l’elezione verrà decisa nemmeno in un pugno di stati in bilico, ma più probabilmente in un gruppo ancor più limitato di pochi distretti all’interno di questi stati, i supervisori elettorali trumpiani avranno certamente modo di confondere il risultato o rallentare il conteggio, e di lì aprire tutta una serie di contenziosi legali. Poi naturalmente Trump comincerà a ripetere che gli hanno rubato la vittoria. Questo genere di retorica ha innescato esplosioni di violenza in passato e c’è ragione di credere che la stessa cosa possa succedere anche quest’anno.
Nel suo libro del 2020, lei scrive che leader che si comportano come Donald Trump sono pericolosi perché la costituzione non regola il trasferimento pacifico del potere, ma lo presuppone. Dà per scontato che da quel punto di vista nessuno farà storie e su questa premessa implicita sviluppa tutto il sistema a seguire. Ma quindi la democrazia è una questione normativa o culturale? Cerco di spiegarmi meglio. Una democrazia si definisce a partire dal complesso di leggi che la sostiene, e che garantisce un certo livello di controllo su chi esercita il potere e sul sistema stesso, oppure il fondamento sta nel fatto che, ancor prima delle norme in sé, tutti accettiamo di seguirle? Diciamo una cultura democratica condivisa, accordo non scritto che precede il contratto sociale esplicito. E se questo è il caso, possiamo dire che sia proprio la cultura democratica in regressione oggi negli Stati Uniti, con le persone che fan sempre più a fatica a mettersi assieme intorno a valori e programmi comuni, politici e non?
Sì, concordo che le premesse del nostro sistema di governance democratica siano state seriamente erose, in particolare con la radicalizzazione del Partito Repubblicano e la sua trasformazione in organizzazione personalistica, costruita intorno al culto del suo leader. Nessun sistema di diritto o costituzionale può sopravvivere senza che i legislatori accettino le regole non scritte che tengono l’impalcatura in piedi. Un leader che metta in discussione con false accuse o insinuazioni l’integrità del processo elettorale, l’indipendenza degli organi giudiziari, le ragioni che muovono l’azione del Dipartimento di Giustizia, o ancora la buonafede della stampa, logora la fiducia nelle norme base che danno legittimità allo stato democratico. In questo genere di sistema abbiamo bisogno di distinguere in modo netto tra avversario politico e nemico esistenziale. Trump lavora da anni affinché questa distinzione diventi sempre più confusa.
Torniamo all’aspetto normativo. Il 6 gennaio, l’attenzione si è concentrata per lo più sull’assalto a Capitol Hill, per ovvie ragioni legate alla sua natura spettacolare. A mio parere, però, il vero rischio di cadere la democrazia americana non lo ha corso fuori dal parlamento, ma al suo interno, dove si tentava di certificare la vittoria di Biden e non tutti erano sicuri che l’operazione, normalmente considerata una formalità, sarebbe andata a buon fine. Gli aspiranti autocrati contemporanei sembrano procedere in questo modo. Oggi quando la democrazia muore non lo fa nelle piazze o attraverso colpi di stato militari come accadeva in passato, ma nel palazzo, con capi di stato spesso regolarmente eletti che si mettono a manipolare le strutture democratiche utilizzando gli strumenti propri della democrazia, come referendum, riforme costituzionali o elettorali. È questa l’idea di Trump e i repubblicani? Giocare con le regole, più che scavalcarle?
Il fatto che così tanti repubblicani alla Camera abbiano votato per opporsi alla certificazione della vittoria di Biden nel 2020 è davvero sorprendente. E che lo abbiano fatto dopo un assalto violento al parlamento di cui sono rappresentanti è per me ancora più scioccante. Con l’Electoral Count Reform Act del 2022 è stato alzato il numero minimo di promotori perché una qualunque obiezione alla certificazione del voto venga presa in considerazione, la soglia oggi sta al 20% di entrambe le camere. Se questa norma fosse stata in vigore nel 2020, l’ostruzionismo dei repubblicani non sarebbe andato da nessuna parte. Il partito di Trump infatti mise insieme quei numeri alla Camera, ma non al Senato. Oggi però chi può dirlo? Siamo tutti concentrati sulla sfida presidenziale, ma anche le corse per la maggioranza al Congresso avranno ripercussioni enormi. Se i repubblicani dovessero prendere il controllo di entrambe le camere, potrebbero senza dubbio coordinare un colpo di stato “morbido” che garantisca a Trump la vittoria.