STORIES 

Joe Biden e lo spirito del tempo

La storia del ritiro di Biden non è solo la storia di una candidatura andata a male

MARIO ALOI
22/07/2024

 


Alla fine Joe Biden ha digerito la pressione del suo partito e ritirato la candidatura a un secondo mandato. L’ennesima svolta senza precedenti di quest’ultimo ventennio americano: nessun presumptive nominee – così si chiama il candidato di Schrödinger che ha vinto le primarie ma non è ancora stato incoronato dalla convention – aveva infatti mai abbandonato la corsa fino a oggi. D’altra parte non era ancora successo nemmeno che un partito indicasse il candidato con primarie pressoché plebiscitarie per poi mollarlo in modo così clamoroso prima del voto. Non si usa – o meglio, non si usava.

A poco più di ventiquattr’ore dall’annuncio molto rimane ancora da vedere, ma siccome almeno questa parte della storia – Biden sì, Biden no – è arrivata a conclusione, possiamo tentare una prima parziale revisione di quanto accaduto, cercando di trarne qualche riflessione come sempre in chiave più o meno storica – una specie di storia sul breve, diciamo. Anche perché questa vicenda non è del tutto news, ha radici profonde. E non interessa soltanto Biden, il suo declino o la meccanica di una candidatura andata a male, c’entra tutta l’impalcatura istituzionale americana, che sta venendo giù nel modo che si conviene alle grandi architetture – prima un pezzo alla volta, lentamente, quasi non ce n’eravamo accorti, e poi sempre più veloce, fino alla frana finale in cui nessuno riesce più a tirar su dal naso altro che polvere.

Appena finite le primarie scrivevo che nel sistema americano i partiti non sono un mero strumento della democrazia, ma ne sono le fondamenta, e che quindi il modo in cui si organizzano e operano, fanno programmi e scelgono candidati, ha implicazioni che ne trascendono la struttura, sia logistica che ideologica. Seguivano i tre paragrafi qui sotto sul loro funzionamento e coordinamento interno:

Gli americani intendono il termine partito – e lo praticano – in maniera leggermente diversa da noi europei. Negli Stati Uniti i partiti hanno strutture leggere e il coordinamento centrale – il Comitato Nazionale Democratico o Repubblicano – è sempre solo logistico e finanziario, mai politico.

Dal punto di vista politico, invece, il partito americano è una coalizione molto diversificata che include pubblici ufficiali, attivisti, finanziatori, gruppi di pressione vari e i professionisti che lavorano alle campagne. Tutte le persone che portano un qualche interesse all’interno della struttura insomma, oltreoceano direbbero gli stakeholders. Queste coalizioni sono alla costante ricerca di un punto d’equilibrio. La selezione del leader, di elezione in elezione, è il momento culminante di questa ricerca.

Le primarie sono quindi da intendersi come un gioco di coordinamento in cui i diversi gruppi cercano un modo di convergere sul candidato che rappresenta il miglior compromesso possibile tra le posizioni dei vari attori a livello politico/ideologico (diciamo la loro agenda) e la necessità di vincere le elezioni generali contro il partito avversario.

Questo gioco di coordinamento però ultimamente è andato fuori giri e l’attuale passaggio di crisi tra i democratici ce lo dimostra una volta di più. Vediamo come funzionava prima, per capire cosa non va adesso. Tradizionalmente i partiti si presentano ai nastri di partenza delle primarie avendo ristretto il campo delle opzioni abbastanza da orientare la scelta dell’elettorato nella maniera più efficiente possibile. Negli anni hanno sviluppato una certa dimestichezza: da quando le primarie hanno la forma attuale, infatti, nonostante la porzione maggioritaria dei delegati che nominano il candidato venga assegnata attraverso il voto popolare, gli apparati interni sono quasi sempre riusciti a far eleggere il profilo che preferivano.

La sorta di pre-eliminatoria attraverso cui il partito seleziona il proprio candidato – qualcuno direbbe il candidato dell’establishment – è stata denominata in un famoso libro sul tema invisible primary, primaria invisibile, proprio perché avviene a porte chiuse, lontano dagli occhi del pubblico. È un passaggio di routine ormai da decenni, l’atto principale del gioco di coordinamento tra i vari attori e interessi dentro il partito di cui sopra, che ha il fine di organizzare il consenso prima che il popolo lo esprima.

Ora, la seduta di autocoscienza in cui i democratici sono impegnati dalla sera del dibattito – le discussioni intorno alla sostenibilità della candidatura di Biden, i negoziati, le pressioni incrociate tra le varie correnti, la conta dei delegati, i sondaggi sulle eventuali alternative – ha tutti i tratti di una primaria invisibile, con due grossi problemi però: arriva in ritardo di circa un anno, a primarie vere e proprie concluse, e non è invisibile per niente. La trattativa ha occupato quotidianamente i giornali, che ne sono diventati teatro e veicolo principale, prima con le indiscrezioni e poi addirittura a suon di dichiarazioni ufficiali. Insomma, il ventre molle del partito è scoperchiato e tutti ci stiamo guardando dentro da settimane.

Fosse la prima volta che qualcosa va storto uno si metterebbe anche in pace ad analizzare l’eccezione, le sue cause, il particolare. Ma qui abbiamo una tendenza, anche abbastanza lineare. Da otto anni a questa parte infatti è un continuo di ritardi e avarie quando i due partiti sono chiamati a fare sintesi elettorale.

Nel 2016 i repubblicani non avevano un candidato designato e anche quando Trump è emerso da fuori il perimetro e si è messo al comando della corsa con largo anticipo non sono riusciti a coordinarsi e arginarne l’ascesa. Come sappiamo sta ancora lì, divide ma impera. Nel 2020 storia simile tra i democratici, che però sfruttando l’ultima finestra disponibile il candidato federatore lo hanno infine trovato e convergendo su Biden hanno fermato appena in tempo la scalata di Sanders. Appena in tempo, ma di nuovo parecchio in ritardo sulle tempistiche standard. Pure il caso di un candidato contestato e pressato a fare un passo indietro dopo aver vinto le primarie non è del tutto inedito. Sempre nel 2016, in seguito alla diffusione dell’Access Hollywood Tape – quella di grab them by the pussy, per intenderci – molti esponenti anche in vista del suo partito chiesero a Trump di lasciare. Non se ne fece nulla, ma fu un passaggio significativo, considerata la dinamica inusuale: i partiti di solito non ammettono pubblicamente di aver scelto male, nella maggior parte dei casi non si fanno neanche venire il dubbio.

Del resto che questa non fosse una crisi individuale ma strutturale lo ha suggerito lo stesso Biden, non sappiamo quanto consapevolmente, quando in risposta ai primi moti di ribellione ha fatto notare come le primarie siano un processo aperto e chiesto perché nessuno lo avesse sfidato lì, se il malcontento era così diffuso. Ecco, perché? Una possibile risposta è che i contenitori novecenteschi non assolvono più alle funzioni base per cui erano stati pensati, non mettono più insieme la gente e le cose, e quindi le procedure che li tengono in piedi diventano inefficienti, confuse – qualche mese fa Biden vinceva le primarie con l’ottanta percento dei consensi, mentre l’ottanta percento del suo elettorato nel paese pensava che dovesse farsi da parte. Alla fine il presidente così come la sua età non sono altro che l’incarnazione più superficiale, la metafora concreta più facile, di questo stallo tra un’era sociopolitica e l’altra. D’altra parte tutto si è spostato nel mondo da quando i meccanismi di selezione dei candidati e in generale i partiti americani sono stati riformati l’ultima volta, a cavallo degli anni ’70.

Sempre a marzo – quando i segnali che le primarie fossero andate di traverso a entrambi i partiti c’erano già tutti, il ritiro di Biden in questo senso ha solo portato l’intera faccenda a un nuovo livello – scrivevo anche questo:

L’idea di coinvolgere l’elettorato nei processi di selezione della classe dirigente dei partiti in modo diretto ha funzionato finché tra le due parti c’era una qualche forma di allineamento, ma oggi la voragine tra cittadinanza e istituzioni è così ampia che le strutture di raccordo ci cascano dentro. In società sempre meno mediate ma al contempo sempre più sfilacciate come le nostre, costruire reti di organizzazione che producano programmi a lunga gittata basati su esperienze sociali comuni sta diventando impossibile. E questo si riflette sui partiti, che nelle democrazie liberali sono la più centrale tra quelle reti organizzative.

Questo scompenso, che come detto nell’ambito ristretto della politica americana monta da un decennio circa, è esploso infine domenica pomeriggio nella forma più ironica possibile, quella del paradosso: le primarie per come le conosciamo oggi erano state introdotte appunto per integrare l’elettorato nel gioco di coordinamento, ridistribuire pesi e contrappesi in chiave se vogliamo populista – beh, oggi finisce che la nomina democratica verrà con tutta probabilità concertata internamente, senza alcuno stress test esterno che preceda la sfida delle generali con l’altro partito. Niente di antidemocratico, per carità, ma una regressione significativa. Erano quasi cinquant’anni che non si vedeva una cosa del genere. Che sia o meno la vice Kamala Harris a prendere il posto di Biden, ormai lo decideranno nella stanza dei bottoni.

Uno dei motivi per cui i democratici hanno avuto tutte queste difficoltà a passare oltre il presidente è che nessuno tra i potenziali rimpiazzi, oggi come un anno fa, è mai apparso particolarmente convincente. Ci fosse una chiara leadership emergente, quella uscente sarebbe stata più facile da accantonare. Tra i sondaggi raccolti nel corso degli ultimi dodici mesi nessun candidato alternativo sembra fare granché meglio di Biden nei testa a testa con Trump. Stanno quasi tutti sotto. Vero, erano candidature ancora astratte ed è noto che i sondaggi ipotetici non fanno testo, o non troppo – ma l’umore generale nei loro confronti non sembra suggerire alcun cambio di passo, almeno non deciso. La stessa posizione di Harris, per esempio, non è del tutto incoraggiante, anche se va detto che nelle ultime settimane non ha fatto che migliorare, a dimostrazione di come i numeri siano in qualche modo suscettibili del passaggio da proiezione fantastica a opzione concreta – in che direzione poi sul lungo termine, ce lo diranno i prossimi mesi.

La verità però è che al di là di questo o quel candidato, questa o quella ipotesi, veramente pochi politici o istituzioni americane hanno tassi di approvazione positivi, e di solito più il profilo è nazionale e peggio è visto. Siamo in quello che in inglese chiamano un overall negative environment, un contesto interamente negativo. Il risultato è una nuova era di politica perennemente oppositiva, per usare la formula coniata – qualche anno fa, preconizzando – dal politologo di Yale Stephen Skowronek.

In un contesto del genere il partito che ha deciso di farsi garante di responsabilità e ordine, della tenuta del sistema, stenta a trovare sponde e adattarsi, perché le istanze che rimangono da rappresentare sono quasi unicamente distruttive, così come i sentimenti prevalenti nella popolazione, la disposizione nazionale. E non è una questione che riguarda solo gli Stati Uniti, intuiamo questi sentimenti nel revival dei para-fascismi in tutto il mondo, che cos’è infatti il fascismo se non una politica dell’istinto di morte?

I democratici faticano a produrre nuova leadership perché sono completamente disallineati con lo spirito forse dovremmo dire il demone del tempo, al contrario del partito avversario, che questi tempi slegati li intercetta perfettamente, in fondo sono decenni che i repubblicani disorganizzano la società americana a suon di retorica anti-federale e non solo. E infatti una leadership loro l’hanno prodotta, distruttiva ma solida, con Trump come paradossale disruptive-party-builder, un federatore sì disgiuntivo e divisivo, che però federa, federa eccome. E non è nonostante la sua portata distruttiva che fa sintesi, ma proprio grazie a essa.

La scorsa settimana è andato in scena uno spettacolo rivelatorio in questo senso: da un lato il supposto partito del caos che mette su una convention tra le più unitarie mai viste, un’esplosione di giubilo senza mezzi termini – psicotico, sconnesso, nero, ma pur sempre giubilo. Dall’altro quello dell’ordine e della responsabilità che congiura contro il suo stesso leader in diretta nazionale, anche per ottime ragioni, ma insomma si sono ridotti a mezzi che sono quelli che sono, e comunque vada han fatto un pasticcio. Tempi interessanti.