JUDICIAL REVIEW
The People vs Donald J. Trump
Il primo processo all’ex presidente doveva essere il meno politico dei quattro in programma, ma può un processo a un ex presidente non essere politico?
MARIO ALOI
24/05/2024
Ci sono due modi possibili di guardare al primo processo che vede Donald Trump imputato. Uno è sintetizzato nel motto che l’accusa ha recitato con insistenza lungo le prime sei settimane di dibattimento: «Siamo davanti a un caso di frode elettorale, pura e semplice». A dire, la questione è politica e ci riguarda tutti. Il secondo, con cui ribatte invece la difesa, sta all’esatto opposto e vorrebbe la vicenda interamente privata. «Quest’uomo non è solo il nostro ex presidente. Non è solo il Donald Trump che avete visto in televisione, o di cui leggete sui giornali», ha detto l’avvocato. «È anche un marito e un padre. Un essere umano proprio come me e come voi». Non pensate al personaggio, insomma, quest’uomo è (anche) reale – come chiarisce del resto il suo più celebre avatar online, realdonaldtrump.
Entrambi i punti di vista raccolgono in sé forzature evidenti ma anche qualche verità. Impossibile infatti che il processo del primo presidente rinviato a giudizio nella storia del paese non interessi la sfera del politico, allo stesso tempo però il reato contestato ha a che vedere con la frode elettorale solo in maniera molto indiretta. Trump avrebbe pagato qualcuno per stare zitto – nello specifico, la pornostar Stormy Daniels – e poi rendicontato la spesa come aziendale, quando non lo era. Certo, il pagamento è avvenuto in un contesto elettorale, la storia andava insabbiata per impedire che nuocesse al candidato Donald Trump, ma la teoria che il falso in bilancio sia stato perpetrato al fine di compiere una frode elettorale si basa su un’interpretazione piuttosto creativa di fatti e codici, che incrocia leggi federali e statali con piglio che molti giuristi, equamente distribuiti lungo tutto lo spettro politico, giudicano alla meglio non ortodosso. D’altra parte, però, Trump non è evidentemente un uomo come tutti noi, un semplice privato cittadino. Ma anche qui: in un procedimento tecnicamente giudiziario come quello istruito dal procuratore distrettuale di Manhattan – che si consuma quindi in un’aula di tribunale e non nelle camere del Congresso – la pretesa, almeno formale, dev’essere per forza quella di trattarlo come tale. Come se ne esce?
Non se ne esce. Messe insieme tutte queste forzature e mezze verità producono una mole di contraddizioni difficile da tenere insieme. E infatti le abbiamo viste saltar fuori ad ogni passaggio del dibattimento, a partire proprio dal primo giorno, quando 60 dei 96 giurati in pre-selezione si sono tirati indietro ammettendo di non poter considerare Donald J. Trump con sguardo neutro, imparziale. C’è un motivo se i padri fondatori hanno cercato di evitare che si celebrassero processi giudiziari per alte cariche politiche, o se Ford ha preferito «dimenticare» Nixon piuttosto che mandarlo a giudizio fuori dal parlamento (nelle parole del suo più recente biografo: he wasn’t forgiving Nixon so much as he was trying to forget him).
Il problema è questo: il personaggio pubblico è tale perché in un certo senso appartiene a tutti. Da persona diventa simbolo. Non a caso li chiamiamo personaggi, perché trascendono la propria sostanza materiale per finire nel narrativo. A quel punto ognuno fa di loro quello che vuole: difficile mantenere la distanza, diventano cose personali. Nel caso specifico poi Trump non è solo una celebrità (attenzione però, a peggiorare la situazione c’è il fatto che è anche una celebrità), ma addirittura un ex presidente, e quindi inevitabilmente il suo rinvio a giudizio suona come un rinvio a giudizio dell’intero sistema, che arriva a mettere sotto processo il suo più alto rappresentante – ex o no che sia, presidenti si è per sempre.
Questa intersezione tra sfera pubblica e privata, che in fondo è una delle tante definizioni possibili del politico, in ambito giudiziale genera il rischio di una serie infinita di paradossi. Per questo fu pensato l’impeachment: un processo politico per reati politici compiuti da personalità politiche. Un procedimento di confino, più o meno. Per evitare contaminazioni. Qui però Trump non è più in carica, la violazione contestata è meramente contabile, e addirittura risale a prima che fosse eletto. Insomma, un vero e proprio glitch nel sistema procedurale americano: trattare questo caso come ordinario crea un sacco di problemi, ma non è possibile trattarlo altrimenti. Di che cosa veramente si stia discutendo, però, diventa difficile dire. Certo gli indizi che la questione sia più ampia di un semplice bilancio aziendale sono sparsi un po’ dappertutto.
Per esempio: mentre provava a smontare l’argomento dell’accusa – secondo cui questa sarebbe una frode elettorale perché un’informazione di vitale importanza per il processo democratico è stata negata al pubblico per vie fraudolente – Todd Blanche, l’avvocato di Trump, a un certo punto ha detto: «Non c’è nulla di male nel tentare d’influenzare un’elezione, si chiama democrazia. L’accusa sta cercando di gettare un alone sinistro su questa idea, come se fosse un crimine. Beh, scoprirete che non lo è».
Il giudice Merchan, che ha presieduto il dibattimento, è andato addirittura oltre, suggerendo l’idea che Trump possa non essere semplicemente un tizio che forse ha violato la legge, ma una sorta di demone della storia che sta mettendo a ferro e fuoco l’intero complesso di norme che regola il vivere comune degli americani.
In prima battuta gli ha proibito di discutere il processo in pubblico, nel tentativo di disinnescare almeno in parte la sua bocca di fuoco mediatica, social – un’altra delle complicazioni che derivano dall’avere un imputato che non è solo un privato cittadino. Poi davanti alle sue continue intemperanze lo ha minacciato di carcerazione, arrendendosi all’evidenza che ogni contromisura, nell’esercizio di equilibrismo che questo processo rappresenta, rischi di portare più problemi di quelli che risolve. Ha detto così, riformulando ma non troppo: certo mandare Trump in galera non farà che complicare ulteriormente le cose, ma le sue continue violazioni all’obbligo di silenzio rappresentano «un attacco diretto allo stato di diritto» che non possiamo tollerare.
E proprio il livello mediatico è l’ultima soglia di confusione in questa vicenda. Tutte le dichiarazioni riportate fino a qui sono infatti puro sentito dire, nel senso che nessuna telecamera è autorizzata a girare dentro la corte penale di Manhattan e non esistono quindi immagini filmate del dibattimento – quello che filtra arriva dai reporter all’interno, ed è solo testo scritto e qualche foto. Bisogna fidarsi. La ragione è una vecchia abitudine, che risale al 1935, nello specifico al processo contro Bruno Hauptmann, l’uomo che rapì e uccise il figlio di appena due anni del celebre aviatore Charles Lindbergh (un altro fictional president, pensate un po’).
In quell’occasione il giudice autorizzò le riprese in alcuni momenti ben definiti, ma non durante le audizioni dei testimoni. Le immagini dei colloqui, però, divennero comunque pubbliche e l’intero processo si trasformò in un circo. Risultato: ogni cinepresa fu bandita, per il procedimento in corso come per tutti gli altri a seguire. E non solo a Flemington, New Jersey, dove si era celebrato quel processo, ma ovunque nel paese. Con il passare del tempo e la crescente mediatizzazione della società americana, questo tipo di restrizioni divennero insostenibili e molti stati le alleggerirono. Ma non New York, che dal 1952 ha una delle legislazioni più rigide in materia.
Da una parte è ovvio perché in processi come quello a Donald Trump sia meglio evitare ogni cassa di risonanza, specie su scala mediatica. Dall’altra però pare in egual modo evidente che negare al pubblico la testimonianza diretta di un procedimento che coinvolge un ex e forse futuro presidente rischi di creare altrettante distorsioni, uguali e contrarie. In fondo si tratta anche qui di trattenere informazioni probabilmente vitali al processo democratico, per lo più in un’epoca in cui è diventato sempre più difficile per la cittadinanza fidarsi di qualunque autorità e istituzione, o peggio dei giornalisti, e in generale farsi un’idea chiara di cosa è vero e cosa no.
In conclusione questo è forse il nodo, la questione finale che l’affermazione di Donald Trump sulla scena politica nazionale ha esposto più di ogni altra, e che il processo in corso sta riattivando in tutta la sua portata distruttiva. Non è anche questa, dopotutto, una vicenda che gira intorno a una verità contestata, a due parti che raccontano versioni divergenti e in totale contraddizione di uno stesso “fatto”? Stormy Daniels dice di aver passato una notte con Donald Trump, Donald Trump dice che non è vero. Il punto non è nemmeno più chi stia mentendo, ma la confusione in sé.
E proprio Stormy Daniels si è presa la briga di rimarcare in modo a dir poco brillante quanto sia sfocata la linea che separa le varie «realtà alternative» in società ormai completamente mediatizzate, dove nessuna esperienza può più essere diretta e il reale è talmente frammentato da avere sembianze diverse per ognuno di noi. Nazioni intere senza un sentire condiviso, hai voglia poi giocare alla democrazia. A Blanche che l’accusava di essersi inventata tutto – perché in fondo lei fa quello per lavoro, sceneggia il sesso così bene da farlo sembrare vero – l’ex pornodiva ha risposto così: «Guardate che il sesso in quei film è reale, esattamente come ciò che è successo in quella stanza». In attesa della sentenza, applausi e sipario.