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Nixon cinquant’anni dopo

Una riflessione su Watergate e i tempi che corrono a mezzo secolo dalle uniche dimissioni presidenziali della storia americana

MARIO ALOI
09/08/2024

 


Stando a quanto riferito da una persona a lui molto vicina, la mattina dell’8 agosto 1974 – il giorno prima di diventare il primo presidente americano a dimettersi – Richard Nixon sedeva alla sua scrivania dissociato. «Vive nelle sue budella», raccontava questo collaboratore dell’amministrazione a Elizabeth Drew, giornalista americana autrice di uno dei migliori resoconti del Watergate: Washington Journal, un diario in presa diretta degli eventi che Drew iniziò a scrivere prima ancora che lo scandalo facesse scandalo.

«Il presidente ha chiuso fuori la realtà. Esternalizza la situazione, come se non fosse lui la persona al centro di questa vicenda. È un finale orribile. Per tutto il tempo non ha fatto altro che ignorare ognuno dei consigli più ragionevoli. All’inizio l’idea di vuotare il sacco, e poi molti altri ancora. Ha creduto fino all’ultimo che la corte potesse essere divisa e che non avrebbe deliberato contro di lui. Ha avuto più di un’opportunità per salvarsi, ma niente. Per questo c’è l’impressione che si stia comportando in maniera irrazionale e che risponda a qualche sorta di convinzione interiore di essere nel giusto, quando in realtà non ha fatto che sbagliare».

Nixon era sempre più isolato, il contesto non gli rispondeva più. Il giorno dopo la mattinata di cui sopra, si rassegnò alle circostanze, dimettendosi. La democrazia americana dimostrava di avere gli anticorpi per difendersi dagli eccessi del suo più alto rappresentante. Richard Milhous Nixon si era messo di traverso al sistema liberale e alle sue norme una volta di troppo, e questo tramite apposite procedure lo aveva rigettato.

Nei cinquant’anni che sono passati da quel momento parecchio è cambiato. Quello che allora era un meccanismo psichico di difesa individuale adesso sembra essere diventato collettivo. In altre parole, non è più il soggetto a essere nevrotico – o meglio, non solo – ma la società intera. Pensiamo per esempio a Donald Trump, erede indiretto di Nixon. Anche lui agisce tutta una serie di dissociazioni non dissimili, almeno in linea di principio, da quelle del suo predecessore, prima tra tutte l’idea che il presidente può quello che vuole e nessuno deve discutere. La differenza è che ora il contesto gli risponde. Di più, gli assomiglia. La macchia si è allargata.

Ovviamente c’entra anche la società di massa e le sue evoluzioni. Il comportamento di Nixon e tutti i dettagli che emergendo poco alla volta ne delineavano la portata eversiva scioccarono la nazione. Oggi quasi nulla riesce a scuoterci. Il ritmo del news cycle è così denso che facciamo fatica a fissare reazioni ed emozioni, c’è subito da girar la testa da un’altra parte, qualcuno ne ha già combinata una nuova. La frenesia del mondo paradossalmente lo tiene fermo. La sfera gira, ma a vuoto. Tanto che anche le procedure di salvaguardia, che pur scattano ancora, perdono sostanza e non hanno effetto. A volte peggiorano addirittura la situazione, esacerbando lo scontro – che però anche lì, non sembra più il genere di conflitto che esplodendo rompe un equilibrio, a questo punto lo scontro è l’equilibrio, uno stato di frattura permanente. E quindi anche gli anticorpi sono diventati parte del problema, come in una malattia autoimmune.

Proprio Elizabeth Drew nell’introduzione al suo libro scrive che nel 1974 la parola impeachment era completamente estranea al pubblico americano, «sapevamo giusto qualcosa di vago su un avventato e manco riuscito tentativo in questo senso dopo la guerra civile». Adesso invece otto anni di trumpismo ne hanno fatto una specie di consuetudine, al punto che chi ne scrive sui giornali non deve nemmeno ripassare i vari passaggi procedurali tra un caso e l’altro. Anche l’espressione crisi costituzionale è diventata di uso comune.

La mappa e i poli

La principale differenza tra il Watergate e gli impeachment trumpiani è senza dubbio il comportamento dei partiti intorno al leader sotto accusa. E badate che parliamo dello stesso partito, il che marca ancora più lo stacco. I repubblicani degli anni ’70 non potevano accettare le bravate di Nixon, non solo da un punto di vista morale, ma soprattutto da quello politico. Oggi al contrario con Trump sono costretti a mandar giù, non hanno altra scelta. La base che ieri non gli avrebbe perdonato il tradimento delle istituzioni, adesso non tollera quello del clan. Con il tempo sono cambiate le priorità.

È il risultato della crescente polarizzazione politica, che nei decenni passati da allora ha messo i due partiti agli estremi opposti, producendo un contesto sempre più diviso e slegato, in cui le questioni identitarie pesano più di tutto il resto e le valutazioni di carattere morale, ideologico, legislativo passano in secondo piano, o addirittura scompaiono dal campo – un campo che si è pian piano ristretto: da un mondo di definizioni condivise, collettive, a uno nel quale il gruppo è più che altro veicolo e amplificatore delle contrapposizioni individuali.

Questa nuova mappa della società americana prende la forma che le riconosciamo oggi proprio negli anni di Nixon e almeno in parte proprio attraverso di lui. Prima del 1960 i due partiti maggiori erano formazioni miste, eterogenee. I democratici contavano al loro interno componenti molto diverse tra loro, come i conservatori del Sud e i nuovi liberal del Nord. Il tessuto politico repubblicano era meno vario, ma comunque intrecciava identità regionali e sfumature ideologiche differenti. Insomma, gli schieramenti erano stratificati, la maglia di ognuno vantava una certa complessità. Da lì in poi però le cose sono andate appiattendosi.

Gli americani chiamano questo processo sorting, una riorganizzazione strutturale attraverso cui i due partiti si fanno gradualmente sempre più omogenei al loro interno e di conseguenza poi si dividono il pubblico per linee più nette, rinunciando a ogni zona grigia in cui gli interessi dell’uno e dell’altro possono sovrapporsi. Alla fine si ritrovano senza più nulla in comune a rappresentare due metà del paese incapaci di comunicare, perché tagliate con l’accetta. E ovviamente è una dinamica circolare, che si autoalimenta: più il gruppo è omogeneo e più le idee al suo interno diventano estreme, ma più le idee al suo interno diventano estreme, meno il gruppo tollera il dissenso, diventando ancora più omogeneo.

Difficile dire se siano stati i partiti a spostare il resto della società americana o viceversa, chi sia l’uovo e chi la gallina. Sono dinamiche impastate, in cui ogni attore riflette gli altri in un gioco di specchi con rimbalzi infiniti e sempre più confusi. Di sicuro però c’è che Nixon è uno di questi rimbalzi. La parabola non comincia con lui, né tanto meno è lui a chiuderla, ma i suoi anni rappresentano senza dubbio uno degli snodi principali.

È una storia che s’intreccia alla progressione del movimento per i diritti civili e alle spinte verso una società americana più inclusiva, meno razzista e segregata. Il conflitto all’interno dei democratici tra la corrente sudista, non proprio aperta a una ristrutturazione della gerarchia sociale che metteva i bianchi in cima alla piramide, e le altre fazioni diventa esplicito già ai tempi di Truman e arriva al climax con Lyndon Johnson, che firmando il Civil Rights Act e il Voting Rights Act spacca definitivamente il partito, consegnando il Sud e i suoi rappresentanti nostalgici della schiavitù prima alla candidatura indipendente del governatore dell’Alabama George Wallace e poi ai repubblicani proprio di Nixon. Quest’ultimo interpreta il passaggio in maniera cinica ma efficace attraverso la cosiddetta southern strategy, un complesso di richiami più o meno esplicitamente razzisti pensato per intercettare il favore politico/elettorale precisamente di quelle aree – ideologiche e geografiche – rimaste orfane di un Partito Democratico sempre più orientato a rappresentare le istanze della democrazia multirazziale, in opposizione alla tradizione del nazionalismo bianco, che invece i repubblicani abbracciano in maniera via via più radicale.

La polarizzazione dei giorni nostri monta su questa base. Nixon si è formato nel contesto binario della guerra fredda ed è abituato a proiettare tutto il male all’esterno – fiumi d’inchiostro psicologista sono stati versati sulle sue tendenze paranoiche. Il suo mondo è manicheo, diviso in buoni e cattivi, categorie rigide che dal quadro internazionale contribuisce a mutuare in quello domestico, definendo un’intera fase di politiche d’odio verso il diverso che hanno finito per inspessire la linea tra il noi e l’altro nei decenni a venire – di qui appunto gli schieramenti sempre più omogenei, uguali a/tra se stessi, e poi certo conseguente estremismo, la polarizzazione, eccetera eccetera eccetera.

Gli anni che portano al Watergate sono impregnati di questa carica oppositiva che oggi ci è tanto familiare. Rick Perlstein, uno dei maggiori storici del movimento conservatore americano, li racconta così nel suo Nixonland: «Dopo la bruciante sconfitta dei candidati repubblicani nel 1970, Nixon diede la colpa ai magheggi dei suoi nemici: i nemici dell’America, come aveva imparato a pensarli. Si fece quindi sempre più determinato a distruggerli, anche perché era convinto che altrimenti sarebbero stati loro a distruggere lui. Milioni di americani inquadravano la contesa negli stessi identici termini: l’America era risucchiata nello scontro finale tra le forze del bene e quelle del male. L’unica cosa su cui non riuscivano a mettersi d’accordo è quale parte rappresentasse l’uno o l’altro. Arrivati al 1972 poi il quadro si era ulteriormente asciugato: da una parte c’era chi era con Richard Nixon e dall’altra chi era contro di lui». Ricorda qualcosa?

Democrazia e limiti del potere presidenziale

1977, il giornalista David Frost chiede e Nixon risponde. «Quindi quello che lei sta dicendo è che esistono situazioni in cui il presidente può decidere che è nel miglior interesse del paese fare qualcosa d’illegale?» «Beh, se lo fa il presidente, significa che non è illegale».

L’impeachment è sempre una discussione intorno ai limiti del potere presidenziale, quello che un presidente può o non può fare. Il passaggio sopra della celebre intervista con Frost tre anni dopo le dimissioni lo dimostra una volta di più, ce ne fosse stato bisogno. Qui Nixon addirittura azzardava una revisione in chiave assolutista: la condotta del capo di stato non si rimette a uno standard, ma è lo standard. A dire, il presidente ha delle prerogative esclusive, che non condivide con nessuno. È un cittadino più uguale degli altri.

Allora era un’opinione lunare, quasi solo sua. A segnare il cambio dei tempi, o la loro evoluzione, però, oggi quell’idea è stata sdoganata dalla Corte Suprema, l’organismo di garanzia costituzionale più alto in grado. E se lo dice la Corte Suprema, potremmo dire, allora è legge. L’immunità presuntiva per tutti gli atti ufficiali garantita al presidente dalla sentenza Trump v. United States di un mese e mezzo fa è infatti un giro di parole tecniche per dire in fondo la stessa cosa: se lo fa il presidente, allora è legale. Un altro segnale di quanto raccontato sopra – Nixon era un pioniere, solo ora i suoi tempi sono davvero maturi.

Non è un caso del resto che gl’impeachment si verifichino quasi sempre un passaggio dopo la reazione a grandi svolte inclusive: Andrew Johnson dopo la guerra civile, Nixon dopo i successi del movimento per i diritti civili, Trump dopo l’elezione di Barack Obama, il primo presidente afroamericano. Se la capacità d’includere e armonizzare le componenti conflittuali interne alla società, rappresentando per la prima volta nella storia dei sistemi politici umani anche la minoranza, è la cifra della democrazia, pare evidente che qualunque spinta esclusiva o assolutista, contraddicendone il principio alla base e appiattendone l’orizzonte, finisca per forzare una ridiscussione dell’intero sistema, che dovrà inevitabilmente partire dalla sua testa.

Ma rispetto al 1974 adesso la democrazia americana è a uno stadio differente del proprio sviluppo. Cinquant’anni fa il paese era in condizione di espellere Nixon e passare oltre con la sua impalcatura istituzionale tutto sommato intatta, oggi invece il livello del conflitto – la quantità di rimossi e contraddizioni che sta venendo su – è tale da ingolfare l’intero sistema. Per questo Trump insiste e nonostante due impeachment e tutte le elezioni perse non passa. Allo stato attuale delle cose l’ex presidente e nuovo candidato è il boccone fermo in gola alla storia americana, la digestione vera e propria sta almeno due passaggi più avanti.