ELETTORALIA 

«Al di là della repressione, penso sia stato un successo, perché stiamo spostando l’orizzonte politico»

Abbiamo intervistato Benjamìn Gaillard-Garrido, dottorando della New York University e dirigente del sindacato studentesco. Ci ha raccontato le proteste nel suo campus, e in generale in tutti gli Stati Uniti, delle ultime settimane.

LORENZO COSTAGUTA
09/05/2024

 


Benjamìn Gaillard-Garrido è un dottorando in storia dell’America latina alla New York University. Come dirigente del GSOC-UAW Local 2110, il sindacato degli studenti graduate di NYU, Gaillard-Garrido ha preso parte alle proteste contro Israele già alla fine del 2023. Nelle scorse settimane, è stato testimone diretto delle brutali politiche di repressione del dissenso studentesco attuate a New York. Gli abbiamo chiesto di raccontarci cosa ha visto e di dirci cosa pensa del presente e del futuro delle proteste nei campus americani di queste settimane. 

Qual è il tuo livello di coinvolgimento nelle proteste? E come sei entrato in contatto con gli organizzatori?

Il mio primo coinvolgimento risale a ottobre/novembre, quando marciavamo più o meno ogni weekend in venti o trentamila per contestare il coinvolgimento americano nel genocidio di Gaza. Diciamo che è cominciato tutto lì. Poi io studio a New York University e lavoro anche con il sindacato studentesco interno all’università. Abbiamo sempre preso una posizione molto chiara sulla Palestina, manifestando la nostra solidarietà e contestando le politiche coloniali israeliane sin dal 2017, quando abbiamo votato l’appoggio al movimento Boycott, Divestment and Sanctions. Questo come sindacato ci ha coinvolti in proteste di diverso tipo, nel campus ma anche fuori.

Hai contribuito ad allestire l’accampamento a New York University? E chi ha partecipato alla protesta? Membri di gruppi organizzati o anche persone che si sono unite a seguito di recenti sviluppi della situazione politica?

Sì, abbiamo preso parte all’organizzazione della prima protesta, l’accampamento. Io non ero lì personalmente all’inizio, ma ho preso ad andare e venire quando c’era bisogno per tutto il tempo che gli studenti del sindacato hanno occupato. Si è trattato di un’azione per lo più studentesca, studenti dei corsi di laurea triennale, alcuni professori, il sindacato e associazioni studentesche per la Palestina, tipo Justice in Palestine. E poi, tutti questi partecipanti sono parte di diverse organizzazioni, collettivi che hanno mobilitato persone e organizzato proteste negli ultimi mesi, provando a costruire un movimento collettivo che includesse sia studenti che lavoratori.

Cosa pensi della risposta di Linda Mills (presidente della New York University, ndr) alle proteste? Perché ha optato per una repressione così dura?

Beh, a noi sembra molto chiaro che ci sia stata una graduale normalizzazione della repressione di ogni forma di protesta o dissenso. Repressione che agisce a diversi livelli e arriva fino alla politica nazionale, delle istituzioni politiche nazionali. A cominciare ovviamente con il presidente e la Casa Bianca, ma non solo, la catena coinvolge tutti, fino alle giurisdizioni locali e municipali.

Questa graduale normalizzazione poi di fatto autorizza il genere di risposta violenta della polizia che abbiamo visto a NYU e in altri campus durante il primo round d’interventi. A NYU abbiamo avuto 120 arresti al primo giro e 14/15 al secondo. Questo non è solo vergognoso, ma mostra anche il vero volto di queste università, e in particolare di NYU, che sta contribuendo direttamente all’occupazione in Palestina, sia attraverso l’investimento dei suoi capitali, che sono investiti nella produzione di armi o in aziende israeliane che lucrano da o sono complici dell’occupazione. Poi ovviamente c’è anche il campus di Tel Aviv, che è parte del loro network globale di università. E infine l’università collabora anche con il dipartimento di polizia di New York, che sappiamo avere programmi di cooperazione con le forze di occupazione israeliane e forze dell’ordine israeliane in generale.

Qual è la tua opinione sulla posizione del corpo studentesco in generale a NYU? Sostengono la protesta o no? E qual è stato l’impatto dell’accampamento e della sua rimozione sugli studenti?

In generale a noi pare chiaro che l’università sia più interessata a proteggere i suoi investimenti che non la sicurezza dei suoi studenti – arabi, musulmani, palestinesi o anche ebrei che siano. Voglio sottolineare questo punto. Gli studenti ebrei impegnati nelle proteste per la Palestina sono moltissimi, ma l’università sembra voler far finta che la lunga storia di dissenso ebraico nei confronti dei movimenti sionisti non esista. O che gli studenti e professori ebrei, per esempio, non rifiutino di arruolarsi e prendere parte agli insediamenti. 

Ma di nuovo, questo è un movimento studentesco, dal basso. Ed è stato bellissimo osservare il livello di mobilitazione raggiunto. E penso che al di là della repressione sia stato un successo enorme, perché ha spostato l’orizzonte politico. Ora parole come occupazione, sionismo, settler colonialism non sono più tabù. Ma vengono usate per criticare la condotta del governo israeliano. Siamo ovviamente preoccupati dalla violenza della reazione, ma penso sia stato un momento cruciale, con grande potenziale trasformativo a livello politico.

Quali sono gli obiettivi della protesta adesso? E com’è il morale tra gli studenti?

Non ho idea di cosa succederà adesso. Immagino che l’estate ci dirà. Come ho detto, la macchina della reazione è in azione per cercare di arginare tutto questo. Ma ho fiducia che qualunque sia la reazione continueremo la mobilitazione generale.

Cosa pensi del modo in cui i media hanno raccontato le proteste?

Beh a tratti è stato, come dire, scandaloso? Equivoco, a voler essere generosi. Più che altro perché hanno detto come al solito che tutto quello che facciamo ha a che fare con l’antisemitismo, che ovviamente non è vero. E che di nuovo solleva la questione della lunga storia del dissenso ebraico e della partecipazione degli ebrei alle proteste contro le colonie come la nostra. Allo stesso tempo non siamo certo sorpresi che sia finita così, perché la maggior parte dei media negli Stati Uniti difendono gli interessi imperialisti del paese, di cui Israele tra gli altri è parte. 

Certo non è l’unico avamposto americano che i media americani sono interessati a proteggere, ma è sicuramente uno dei principali. Quindi per esempio i giornali hanno utilizzato la narrazione degli agitatori esterni, nonostante il fatto che il 99% delle persone arrestate nell’ambito di queste proteste sono affiliate alle università. E di nuovo, il trucchetto dell’agitatore esterno è noto e in un certo senso tradizionale, viene usato almeno dal diciannovesimo secolo. È stato usato per screditare i movimenti antischiavisti e poi ancora negli anni ’30, ’40 e ’50 con il maccartismo e contro i movimenti comunisti, per questo noi rifiutiamo la distinzione tra studenti e non studenti, perché quello che vogliamo costruire è un movimento collettivo.

Quale pensi sarà l’impatto a livello nazionale di queste proteste? Pensi che ci saranno delle conseguenze per le elezioni di novembre?

Non saprei dire se ci sarà un impatto elettorale a novembre. Sembra che non ci sia troppa differenza tra democratici e repubblicani a questo punto in termini di risposta al nostro movimento e alle nostre proteste.

Secondo te perché Columbia ha ricevuto tutta questa attenzione, anche in confronto ad altri campus dove ci sono state proteste altrettanto imponenti?

Immagino sia perché è Ivy League, e perché è New York. Tutte le telecamere sono puntate lì, ci sono parecchi studenti, professori. In quel contesto, chi vuole svilire le proteste ha i contatti giusti, con i network per esempio. E quindi sono in grado di mobilitare le televisioni e mettere Columbia al centro della storia, magari a danno di università più popolari, come City University of New York. CUNY anche aveva un grande accampamento che è stato buttato giù dalla polizia in modo brutale, ma se n’è parlato meno. Io non penso che i riflettori su Columbia debbano oscurare il fatto che questo è un movimento nazionale e un movimento che è stato in gran parte promosso da università pubbliche. E non penso solo a CUNY, ma per esempio anche al California Polytechnic di Humboldt. Anche loro hanno occupato, stanno occupando, e sono persone di origini popolari con situazioni economiche anche precarie. Persone che sono sempre state alla testa dei movimenti di protesta in questo paese.