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Trump, Biden e le tribolazioni di una democrazia di immigrati /03

Quando la composizione etnico-razziale della popolazione degli Stati Uniti si modifica, anche il popolo politico si trasforma e la democrazia americana attraversa periodi di crisi.

ARNALDO TESTI
20/05/2024

 


Questo articolo è apparso originariamente sul blog di Arnaldo Testi Shortcuts America ed è parte di una serie composta da diversi pezzi che sviluppano e approfondiscono il tema, qui le altre puntate.

Non è la prima volta che ci sono crisi e reazioni del genere, nella storia nazionale americana. Un po’ di storia di lungo periodo aiuta a comprendere che problemi simili si presentano, si ripresentano, sembrano insolubili, poi si risolvono o almeno si attenuano alla vista, in una maniera o nell’altra. C’è almeno un importante ciclo precedente, generato dalle grandi ondate migratorie dell’Ottocento e del primo Novecento, quelle a cui contribuirono tanti italiani. Erano fatte di genti che provenivano dall’Europa ma in cui molti vecchi americani, quelli arrivati prima, non si riconoscevano affatto. I vecchi americani bianchi erano europei dell’Europa centrale e settentrionale, britannici, germanici, olandesi, scandinavi. I nuovi arrivati erano invece europei del Sud e dell’Est. Erano genti così diverse!

Fra 1880 e il 1924 arrivarono negli Stati Uniti 28 milioni d’immigrati. La quota più consistente, quasi un quarto (il 23%), era fatta d’italiani. Erano in gran parte persone cresciute in società tradizionali, rurali, contadine. Avevano religioni diverse, guardate con sospetto nell’America cristiana protestante. Erano cattolici irlandesi, italiani, polacchi, erano cristiani ortodossi slavi, erano ebrei del grande impero russo. Costoro entrarono lentamente nella vita pubblica, come oggi conquistando diritti e partecipazione politica e rappresentanza, come oggi provocando crisi di rigetto, incontrando reazioni popolari negative, “nativiste”. I movimenti anti-immigrati più estremi li raffiguravano come esseri di razza inferiore, violenti, criminali, mafiosi, sovversivi, bombaroli, che il mondo rovesciava nella pattumiera nordamericana (una fantasia alla Trump, insomma).

Dall’inizio del Novecento l’ideologia nazionale celebrava il melting pot, il sogno della fusione dei diversi in un unico popolo. Ma perché si realizzasse qualcosa di simile a quel sogno, ce ne volle. Ci vollero decenni. Ci volle il blocco dell’immigrazione negli anni Venti, giusto cent’anni fa. Ci vollero le riforme economiche e sociali dell’amministrazione Roosevelt, la sindacalizzazione della classe operaia multietnica, l’esperienza della guerra e poi del lungo dopoguerra, della Guerra fredda, della democrazia della prosperità e dei consumi, della scolarizzazione di massa fino all’università. Insomma, fu il governo liberal e interventista del New Deal e del post-New Deal, con le sue politiche di stimolo economico e trasformazione sociale, a favorire il riassestamento dei nuovi e vecchi americani in un regime di convivenza, un regime di (più o meno) comune cittadinanza.

C’erano dei limiti seri in queste esperienze. Esse riguardarono soprattutto i cittadini di discendenza europea, che fra l’altro impararono a vedersi tutti non solo come americani, ma come americani bianchi. Mentre continuarono ad avere dei guai i non bianchi, i pochi asiatici (i giapponesi in particolare) e gli afroamericani, i cittadini neri, molti dei quali chiusi nei regimi segregati del Sud. E tuttavia, negli anni Sessanta le cose apparivano sotto un’altra luce, sembravano andare così bene, e per giunta c’era bisogno di nuova forza lavoro, che si decise di riaprire e poi di spalancare le porte all’immigrazione. Ed è cominciato il nuovo ciclo di cui si è appena detto e di cui la sfida di Trump è una delle conseguenze. Ma non c’è solo lui sulla scena. In questo contesto, che cosa fa il presidente in carica? Nella sua apparente fragilità senile, nella sua fredda determinazione da Dark Brandon (il perché del nickname da supereroe da fumetto è su Google), Joe Biden cerca di fare alcune cose.

Biden è stato eletto nel 2020 con un programma molto ambizioso che si ispira in maniera esplicita proprio all’interventismo pubblico inaugurato nell’epoca del New Deal. E’ un programma che, nelle intenzioni, è di ricostruzione economica e sociale e include importanti tentativi di pacificazione delle tensioni etnico-razziali che si sono accumulate nel paese. Le conquiste dell’America liberal, dice Biden, sono state dimenticate, in parte smantellate. Nell’ultimo mezzo secolo il paese ha vissuto spinte anti-stataliste, di deregulation dell’economia, della società, del mercato. Spinte guidate dai conservatori repubblicani, con Reagan che proclamava che lo stato è il problema, non la soluzione. Ma che hanno toccato anche i democratici, a cominciare dai New Democrats del partito di Bill Clinton. Spinte, dice Biden, che stanno mettendo sotto stress la convivenza civile.

C’è qui una sorta di autocritica dei democratici, di certi democratici, di Biden stesso, che ha vissuto in prima fila tutto l’arco dell’ultimo mezzo secolo di politica nazionale. (È stato eletto senatore del Delaware nel 1972.) Diceva e dice Biden, l’ha ripetuto nel discorso sullo stato dell’Unione del marzo scorso: c’è bisogno di «cambiare il paradigma» nelle politiche pubbliche, nelle politiche di governo. C’è bisogno di una rottura epocale, di un ritorno al ruolo centrale del governo federale nella società e nell’economia, un ritorno ai tempi del big government e delle riforme sociali. Il cuore della sua scommessa era ed è questo: la possibilità che la presidenza Trump, presidenza di un solo mandato, sia l’episodio terminale, esausto e degenerato della lunga fase conservatrice inaugurata da Reagan. E che sia tempo di cambiare registro.

Seguendo questa prospettiva, la presidenza Biden ha avuto un carattere trasformativo. Ha fatto massicci interventi pubblici in infrastrutture materiali e immateriali, in strade, ponti, scuole, edifici pubblici, porti e aeroporti, trasporti pubblici, politiche sanitarie, reti digitali, ricerca scientifica, istruzione fino all’università e ai debiti accumulati dagli studenti. Ha favorito la transizione ecologica ed energetica, ha aiutato l’industria dei semiconduttori, dell’energia solare, dei motori elettrici. Vi ha investito migliaia di miliardi di dollari, 5000 miliardi in maniera diretta: per limitare la dipendenza dai mercati stranieri, per riportare a casa posti di lavoro industriali espatriati con la globalizzazione e la deindustrializzazione, per sostenere l’economia dopo il Covid. Fra i risultati ottenuti ci sono la creazione di 15 milioni di nuovi posti di lavoro e la disoccupazione sotto il 4%, ai minimi storici.