ELETTORALIA

Una frattura destinata a restare

I contrasti lungo la linea del genere potrebbero avere un’influenza decisiva sulle elezioni presidenziali. In ogni caso, decideranno il futuro dell’America

LORENZO COSTAGUTA
01/11/2024

 


«Proteggerò le donne, che lo vogliano oppure no». Avessimo bisogno di una frase per descrivere il complicato rapporto di Donald J. Trump con l’elettorato femminile (e le donne in generale), potremmo partire da queste sue parole, pronunciate durante un comizio a Green Bay, Wisconsin, il 30 ottobre. La protezione alle donne imposta, per lo più da un individuo condannato per abusi sessuali e con un paio di dozzine di donne all’attivo che lo accusano di violenza sessuale nei loro confronti. Una sovversione del punto della questione quasi comica, se non fosse che di comico i temi a cui si riferiva il candidato repubblicano (l’aborto, oltre alla violenza sulle donne), non hanno proprio niente.

Con l’avvicinarsi del 5 novembre, democratici e repubblicani si stanno concentrando sempre di più su quelli che, in apparenza, sono i più manifesti punti di debolezza delle rispettive coalizioni elettorali. Guardando ai numeri, quello forse più evidente per entrambi i partiti, seppur per ragioni opposte, è il gender gap, ovvero la divisione dei votanti in base al genere. Dopo settimane in cui il divario si era assestato su circa dodici punti percentuali a favore di Harris tra le donne e nove punti percentuali a favore di Trump tra gli uomini (dati CBS News), un sondaggio uscito di recente per NBC fotografa una situazione ancora più polarizzata: 30% di gap a favore di Harris tra le donne, contro un 12% a favore di Trump tra gli uomini.

La sequenza storica delle ultime elezioni ci dice che questi numeri potrebbero essere più un problema per Harris che per Trump. Infatti, se il vantaggio dei democratici tra le donne è un dato consolidato da almeno un decennio (54% a 39% per i dem nel 2016, 55% a 44% nel 2020), il dato per il voto maschile è fluttuato a seconda delle tornate elettorali, con un più 11% per Trump contro Clinton nel 2016 (52% a 41%) e un sostanziale pareggio tra Trump e Biden nel 2020 (50% a 48% a favore di Trump; dati Pew Center).

Una semplice chiave di lettura di questi dati può essere offerta guardando al genere dei candidati in ciascuna tornata: quando Trump ha sfidato una donna nel 2016, più donne hanno votato democratico e più uomini hanno votato repubblicano. Nel 2020, quando a sfidarsi sono stati due uomini, le donne sono rimaste massicciamente con i democratici, mentre gli uomini si sono divisi più equamente.

Il 2024 sembra profilarsi come un ritorno al 2016, con il voto femminile ancora in larga parte a favore dei democratici e un ritorno del voto maschile dalla parte repubblicana. Ma le percentuali faranno la differenza, e da questo punto di vista se il sondaggio di NBC dovesse rivelarsi corretto non solo parleremmo del più largo gender gap nella storia elettorale americana, ma saremmo anche di fronte allo spostamento elettorale che forse potrebbe consegnare a Harris la Casa Bianca.

Per usare un’espressione dell’Economist, tanto perfetta in inglese quanto intraducibile in italiano, questa è una gendered election, ovvero un’elezione le cui caratteristiche principali sono interpretabili lungo l’asse delle divisioni di genere. Le ragioni per cui ci troviamo in questa situazione sono molteplici, e non sono solo legate alla presenza di una donna al top del ticket democratico.

Vi è un primo tema la cui importanza è impossibile da ignorare: l’aborto. Non è esagerato dire che la decisione della Corte Suprema del 2022 di eliminare il diritto all’aborto a livello federale ha rivoluzionato lo scenario politico americano. Un pilastro dell’epoca dei diritti civili è stato cancellato dai sei giudici conservatori della Corte Suprema, dando al paese una chiara dimostrazione delle intenzioni di Trump e della destra che lo sostiene. Ma se le mid-term del 2022, arrivate a pochi mesi di distanza dal pronunciamento della Corte, ne sono state chiaramente influenzate, determinare l’impatto che questo cambiamento avrà sulle presidenziali rimane più complicato. I sondaggi su base nazionale suggeriscono che il tema non compete in alcun modo con quella che è la issue più importante per l’elettorato americano: l’economia. Anzi, sia Gallup che Pew Center rilevano che l’aborto risulta meno citato come tema prioritario rispetto a molti altri, tra cui la democrazia in America, la politica estera, la scelta dei giudici della Corte Suprema, l’immigrazione, il sistema sanitario, e l’educazione.

C’è da chiedersi se il fatto che in undici stati si andrà a votare per dei referendum sull’aborto avrà qualche effetto traino sul voto democratico. A seguito della sentenza della Corte Suprema, infatti, in molti stati la scelta su come aggiornare la legislazione sul tema, spesso ferma a decenni fa, è stata demandata direttamente ai cittadini. Le votazioni in Kansas e in Kentucky, due stati conservatori che nel 2022 hanno votato per mantenere il diritto all’aborto, hanno confermato che la maggioranza degli americani, a prescindere dalle appartenenze politiche, sostiene il diritto all’aborto. E proprio questi precedenti sembrano indicare che, anche in caso di vittoria dei referendum pro-aborto, non è detto che questo si traduca in un aumento del voto democratico (senza contare che solo due degli undici stati con referendum sono nel gruppo degli swing states, Arizona e Nevada).

C’è un livello più intimo, e quindi anche molto più difficile da inquadrare, in cui l’aborto potrebbe essere un fattore determinante nelle scelte di molte donne americane. Vi hanno fatto riferimento Liz Cheney e Michelle Obama, in due eventi elettorali a favore di Harris, descrivendo uno specifico tipo di elettrice conservatrice. Nelle parole di Cheney, «ci sono molte repubblicane e indipendenti che si stanno dicendo ‘guarda, non voglio attirare la collera di Trump e Vance su di me, quindi voterò con la mia coscienza, senza parlarne con nessuno’». Una sorta di “elettrice silenziosa” di Harris, che non se la sente di sostenere apertamente la vicepresidente ma che ha osservato la retorica e le azioni di Trump sul tema dell’aborto, teme le potenziali conseguenze di una sua elezione ed è disposta ad andare contro al proprio contesto sociale per evitarne gli eccessi.

C’è un’ultima dinamica di cui dare conto, una tendenza che se consolidata sarà destinata ad influenzare non solo questa ma molte elezioni a venire. Spacchettando le intenzioni di voto per fasce di età, si nota come la Gen Z (18-29 anni) sia quella in cui il divario di genere è più marcato. Questo è dovuto ad un significativo spostamento a sinistra delle giovani donne americane negli ultimi otto/dieci anni, non replicato dalla componente maschile, che è rimasta equamente divisa tra democratici e repubblicani (NBC).

A cosa è dovuto questo spostamento? Ha provato a rispondere Claire Cain Miller sul New York Times, intervistando alcune giovani elettrici di Harris e alcuni giovani elettori di Trump. Miller suggerisce che questa discrasia sia il risultato di un diverso vissuto generazionale. Da una parte, una generazione di ragazze cresciute immerse nel femminismo delle pari opportunità degli ultimi decenni, educate nella convinzione di poter fare quello che vogliono della loro vita, a loro agio a scuola, brave al college e con una formazione perfettamente in linea con i desiderata del mercato del lavoro attuale (lavori intellettuali, di assistenza e nei servizi). Dall’altra, una generazione di ragazzi cresciuti con l’obiettivo di replicare il propri modelli familiare di riferimento, ovvero l’idea di diventare la principale (se non l’unica) fonte di sostentamento di una famiglia nucleare tradizionale. Ragazzi non troppo portati per il lavoro intellettuale, molto più a loro agio fuori dal college a fare lavori manuali, che aspirano alla quiete di un posto fisso. Figure sempre meno richieste dal mercato del lavoro, con un impianto valoriale fuori fase rispetto all’ethos culturale degli ultimi decenni. Con queste premesse, non è difficile capire le origini del gender gap nelle intenzioni di voto della Gen Z.

La campagna democratica e quella repubblicana queste realtà le conoscono benissimo, e su queste basi si stanno muovendo negli ultimi giorni. Non è un caso che Harris abbia fatto svariati eventi con Liz Cheney negli swing states, una mossa pensata per attivare quelle “elettrici silenziose”, donne residenti in contesti suburbani, magari repubblicane moderate. Parliamo di gruppi elettorali che anche solo con un piccolo spostamento, dati i margini minuscoli visti nelle scorse due elezioni presidenziali, potrebbero decidere l’elezione intera.

Dall’altra parte, Trump si è mosso sulla base di un calcolo fatto dalla sua campagna, ovvero che del 5% di elettori ancora indecisi la maggior parte siano giovani uomini, tendenzialmente apolitici, appartenenti per lo più al tipo sociale descritto da Miller sul Times. Si spiegano così le tante apparizioni fatte da Trump in podcast e programmi di giornalisti, comici e sportivi la cui audience è prevalentemente composta da giovani maschi, da Joe Rogan a Mark Calaway a Theo Von (“Trump’s Bro Podcast Tour”, come lo ha chiamato Forbes).

In ultima analisi, il fatto che sia Harris che Trump stiano passando gli ultimi giorni delle rispettive campagne a corteggiare blocchi sociali così diametralmente opposti dal punto di vista del genere ci fa ritornare al punto da cui siamo partiti: la gendered election. Harris e Trump, in fondo, non sono che l’incarnazione di due modelli sociali opposti, cresciuti in parallelo e senza apparente contatto tra di loro nella strana America divisa a metà di questi anni. Da una parte, una donna immigrata di seconda generazione, con background multirazziale, capace con le proprie qualità di ascendere la scala sociale e costruirsi una carriera sfavillante, perfettamente a suo agio nel mondo globalizzato contemporaneo. Dall’altra un uomo bianco, nato nel privilegio e abilissimo a muoversi in quel contesto, risentito dalla perdita di status causatagli dal modificarsi delle condizioni intorno a sé, autogiustificatosi sulla base di questo risentimento a usare ogni mezzo per mantenere il proprio status. Su queste biografie l’elettorato americano sta proiettando le proprie aspirazioni, i propri progetti e le proprie paure – motivazioni sulla base delle quali andrà a esprimere il proprio voto. Impossibile dire chi la spunterà. Quello che si può sapere di per certo, invece, è che il 5 novembre sarà solo un capitolo di una battaglia lungo la linea del genere tutta ancora da scrivere.