ELETTORALIA 

Trump guadagna tra gli elettori di colore? O è Biden che cede?

Spesso il miglior modo per farsi un’idea dei movimenti interni alla società americana è osservarne i riflessi sulla mappa elettorale

MARIO ALOI
08/07/2024

 


L’abbiamo detto più volte, queste presidenziali americane fanno genere a sé da molti punti vista. Saltano consuetudini decennali, tendenze statistiche solidissime s’invertono – categorie, regole e usi che per generazioni ci hanno reso il mondo più comprensibile (o almeno, così ci siamo illusi) non funzionano più. Tutto il microcosmo della politica americana è pancia all’aria e da questa nuova prospettiva ribaltata fatichiamo a trovare nuovi punti di riferimento. Certo, molto ha a che fare con la carica eversiva di Donald Trump, che si è mangiato tutte le convenzioni. Però – anche questo lo abbiamo ripetuto fino allo sfinimento – Trump è solo il sintomo, non il malanno. Esprime uno stato di cose che lo precede: la società americana tutta si sta riallineando, cerca un nuovo standard, e quindi l’ex e forse futuro presidente non è motore del caos, ma ne è prodotto. O agente. Poi di sicuro lo accelera anche.

Un buon modo per farsi un’idea più chiara dei movimenti interni alla società americana è di solito osservarne i riflessi sulla mappa elettorale. Il girotondo con cui si organizzano le coalizioni che sorreggono gli ordini e i partiti politici, infatti, storicamente tende a riflettere convergenze d’interessi nel paese che negli Stati Uniti prendono ogni volta la forma di un tetris demografico: i vari blocchi sociali si incastrano tra loro, formando maggioranze elettorali più o meno solide, più o meno durature. Tra le tante piccole e grandi scosse di assestamento in questo senso che caratterizzano la congiuntura attuale, una in particolare sta stimolando più di altre la curiosità degli addetti ai lavori, probabilmente perché va a toccare convinzioni che sono radicate a vari livelli della cultura americana. In due parole: i democratici, e quindi il loro candidato Joe Biden, stanno cedendo consenso tra gli elettori non bianchi, o di colore. Parecchio consenso. Abbastanza da – forse – decidere l’elezione.

Prima di abbozzare possibili spiegazioni a questo input che parrebbe controintuitivo – le minoranze votano Trump? – vediamo qualche numero, per capire se lo spostamento di voti sia reale o presunto, quali le proporzioni, e se si tratti di una vera e propria tendenza o solo di movimenti occasionali dettati da fattori di breve periodo.

I sondaggi che sembrano mostrare un calo del sostegno a Joe Biden tra i cosiddetti elettori di colore – che poi significa, volendo isolarne i due principali macro-sotto-gruppi, elettori afroamericani e ispanici – si moltiplicano da mesi e sono di varia natura. Abbiamo rilevazioni su scala nazionale, altre relative a stati specifici e poi alcune che indagano sotto-sotto-gruppi particolarmente rilevanti, come per esempio i giovani (di colore). Intendiamoci, Biden conserva la maggioranza in ogni sondaggio, l’elettorato nero e quello ispanico, presi insieme o separatamente, continuano a preferire i democratici ai repubblicani, ma sono i margini a preoccupare la campagna del presidente: vantaggi che per la categoria degli elettori non bianchi nel suo complesso quattro anni fa si aggiravano intorno ai 50 punti oggi scendono a 20, a volte addirittura sotto i 10.

I singoli sondaggi però non sono mai troppo affidabili, possono essere influenzati da dinamiche temporanee, coinvolgere un numero di persone insufficiente a raggiungere la rilevanza statistica, o addirittura essere pesati male. Per ricavare dati più attendibili ci sono due modi: allargare il campione nello spazio, con le medie tra più rilevazioni provenienti da istituti diversi, o farlo nel tempo, incrociando risultati elettorali del passato e proiezioni presenti con le caratteristiche demografiche di luoghi molto specifici, nel tentativo d’identificare eventuali tendenze. Di norma aiuta fare entrambe queste cose insieme, così da avere un bacino di analisi che sia il più profondo possibile.

Numeri

Per prima cosa vediamo quindi le medie. L’ex sondaggista e analista elettorale Adam Carlson ha messo insieme un tracker, che aggiorna ciclicamente, dove aggrega un gran numero di rilevazioni, ricavandone tutta una serie di dati organizzati per sottogruppi demografici. Gli ultimi calcoli sono relativi a maggio, ma scorrendo le tab dei mesi precedenti ci si accorge facilmente di come certi trend siano stabili dalla fine dell’anno scorso. Tra questi quello appunto degli elettori di colore.

Piccola precisazione: tutte le medie sono precedenti al dibattito e quindi non ne tengono in considerazione i riflessi. La performance di Biden sta causando più di un movimento nei sondaggi, spostando l’ago ancor più verso Trump. Questi movimenti potrebbero riassorbirsi nelle settimane seguenti come no, lo vedremo. Ma il discorso che segue rimane valido in ogni caso, è un tentativo di analisi sul medio periodo, tratta di movimenti che interessano più tornate elettorali, non solo questa, né tantomeno spostamenti più o meno marginali settimana per settimana. In un certo senso è quasi meglio che si fondi su dati non influenzati da scosse troppo localizzate, che dipendono da un singolo fattore tra i tanti che muovono la campagna – in questo caso l’età di Biden, e la sua tenuta fisico-cognitiva.

Ciò premesso, ecco i numeri. Rispetto al 2020, Biden perde 31 punti percentuali nel testa a testa con Trump tra gli afroamericani e 15 tra i latini. Utile notare come per quanto riguarda le comunità nere, quello che il presidente cede (-19) sia più di quello che lo sfidante guadagna (+13), a suggerire come esistano enormi sacche di elettori scontenti dell’attuale amministrazione ma non necessariamente convinti dell’alternativa. Resta comunque il fatto che se Trump dovesse tradurre queste proiezioni in voti reali, aggiudicandosi tra il 15 e il 20 percento del voto afroamericano e intorno al 40 di quello ispanico, si tratterrebbe di risultati storici, vicini o addirittura oltre le soglie massime per questi elettorati specifici toccate dal suo partito nel dopoguerra.

 

 

Nel tentativo di capire se spostamenti di queste proporzioni siano anche solo plausibili, un altro analista elettorale americano, Nate Silver, è andato a guardare nel dettaglio alcune aree a grande densità di elettori non bianchi, per individuare eventuali trend in fase di sedimentazione, magari da qualche elezione in fila. Il primo posto che ha preso in esame è la contea di Starr nel sud del Texas – Rio Grande Valley, lungo il confine con il Messico – dove il 98% della popolazione è ispanoamericana, più che in ogni altro angolo del paese al di fuori di Porto Rico. Bene, il numero di voti complessivi ricevuti dai democratici nelle ultime quattro elezioni presidenziali, tra il 2008 e il 2020, è grosso modo stabile, ma Trump è passato da 2218 preferenze nel 2016 a 8247 nel 2020, quasi quattro volte tanto.

A Starr County questa dinamica non riguarda solo l’ex presidente, ma è confermata anche dalle elezioni congressuali lungo lo stesso periodo. Il deputato per il 28esimo distretto del Texas è democratico e nel 2022 ha vinto contro il suo avversario repubblicano con un margine di 13 punti, che non sarebbe nemmeno male, non fosse che i punti di distacco erano 19 nel 2020 e addirittura 35 nel 2016. Passando alla città di New York, un altro contesto parecchio composito a livello demografico ma molto differente dal Texas, nelle aree a maggiore densità di elettori di colore come il Bronx o il Queens è possibile osservare cali per i democratici molto simili a quelli di cui sopra, con picchi negativi che tra il 2012 e il 2022 si avvicinano al 30 percento. Insomma, si tratta di tendenze sempre meno localizzate, che si stanno diffondendo lungo tutta la nazione, anche in aree molto diverse tra loro.

Va bene, ma perché?

Messe sul tavolo le coordinate di massima, cerchiamo ora di capire cosa sta succedendo. Come detto, il tema ha destato parecchia curiosità e il dibattito intorno a questi movimenti è molto vivo. Ci sono tre teorie principali che provano a spiegarli, e sono teorie che non si escludono necessariamente a vicenda: ognuna guarda alla questione da un angolo diverso, ma sono angoli potenzialmente complementari. In una società stratificata come quella americana raramente svolte di questo tipo hanno una causa sola, i vari fattori s’intrecciano e interagiscono in maniere spesso molto complesse e non per forza lineari.

La prima ipotesi, che potremmo definire teoria ideologica, è quella che ha di fatto innescato il dibattito nel corso degli ultimi mesi. L’ha proposta il giornalista John Burn-Murdoch del Financial Times con un lungo thread pieno di dettagli, dati e riferimenti su X (fu Twitter). Potremmo sintetizzarla così: un numero enorme di elettori americani non bianchi ha da tempo posizioni molto più conservatrici del partito per cui vota. Detto in altro modo, il sistema ideologico/valoriale di questi elettori non è – o non è più – allineato con quello dei democratici. Per anni li hanno votati sulla scia degli anni ’60 e della cosiddetta era dei diritti civili, diventandone uno degli elettorati chiave, ma il collante che si è formato durante quel passaggio storico è più identitario che strettamente ideologico o legato al posizionamento politico in senso ampio, oggi la memoria di quei tempi tende a sbiadire e il legame, specie con le nuove generazioni, è sempre meno stretto.

Per farsi un’idea più precisa di questa parziale scissione tra voto e posizionamento, consideriamo le istanze più tipicamente conservatrici nel dibattito pubblico americano, come per esempio la libera circolazione delle armi, le limitazioni al diritto ad abortire, o l’idea che lo stato debba regolare il meno possibile la vita dei privati cittadini. Pochissime persone con queste posizioni votano democratico tra i bianchi, ma la porzione aumenta in misura considerevole se guardiamo all’elettorato latino e diventa addirittura enorme – ipermaggioritaria – tra gli afroamericani. Detto più in generale, non sono molti gli elettori bianchi che si definiscano conservatori a votare per i democratici, tra neri e ispanici sono invece parecchi.

 

 

Una parziale conferma alla teoria della memoria degli anni ’60 che via via si dissolve arriva scomponendo l’elettorato afroamericano in fasce di età. Il celebre adagio «i giovani preferiscono i democratici, mentre i più anziani votano repubblicano» non sembra tenere più granché all’interno delle comunità nere: le fasce di età più bassa sono senza dubbio – e in misura crescente – le più distanti dal partito del presidente. A questo contribuisce con tutta probabilità anche il fatto che le suddette comunità non sono più chiuse come prima e l’influenza delle vecchie generazioni sulle successive è significativamente ridotta rispetto al passato.

Burn-Murdoch scandisce questo passaggio con particolare efficacia. Secondo lui con la popolazione che in generale va in chiesa sempre meno è venuto a mancare uno dei principali luoghi di controllo/pressione politica intergenerazionale, proprio mentre negli Stati Uniti veniva abbassato il tasso di segregazione, riducendo il numero di persone che hanno zero o pochissimi amici e parenti di razza diversa dalla loro. Risultato: la pressione sociale per chi ha vedute più conservatrici a non votare repubblicano è in netta diminuzione.

La seconda teoria – chiamiamola teoria economica – guarda invece all’intera faccenda dalla prospettiva del riallineamento, o disallineamento, delle fasce di reddito, che poi finisce per franare sulla distribuzione del voto in termini etnico-razziali. Burn-Murdoch tocca questo aspetto solo lateralmente, ma noi ne abbiamo già scritto a lungo, quindi ora mi limiterò a riassumere. In pratica mentre lungo tutta la seconda metà del secolo scorso e l’inizio di questo il consenso si organizzava principalmente in termini di reddito, con le fasce più basse che votavano a maggioranza democratico e quelle più alte repubblicano, negli ultimi vent’anni c’è stata una parziale, ma graduale, costante e rilevante inversione di tendenza: i democratici non fanno che guadagnare consenso tra le classi medioricche, mentre i repubblicani avanzano tra quelle meno abbienti. Di contro, il singolo fattore maggiormente predittivo delle intenzioni di voto degli americani è diventato il livello d’istruzione. Dal 2016 Trump continua ad ampliare la sua porzione di voti tra gli elettori senza diploma universitario, lasciando ai democratici una fetta sempre crescente di quelli più istruiti.

C’è caso quindi che questa de-polarizzazione a livello di classe stia provocando a cascata una de-polarizzazione a livello razziale. In pratica se proiettiamo la tendenza appena evidenziata nel futuro, da questa elezione ormai prossima in su, dobbiamo pensare che i democratici vedranno erodersi ancora il loro consenso tra neri e ispanici (e infatti lo stiamo vedendo), perché tra queste categorie demografiche i livelli di reddito e istruzione tendono a essere in media più bassi – entrambi fattori che, come detto, oggi sembrano spostare il pubblico verso i repubblicani. Quindi: perché le minoranze oggi votano Trump più di prima? Beh, perché gli elettorati a basso reddito e basso tasso d’istruzione in generale votano i repubblicani più di prima.

La terza spiegazione possibile (ripeto, da incrociare alle altre, non si escludono a vicenda), invece, tira in mezzo una categoria tutta nuova, introdotta di recente nelle analisi dei flussi: quella dei cosiddetti low information voters, o disangaged – elettori meno interessati alla politica e che di conseguenza hanno meno informazioni a riguardo. Buona parte del solco che Trump ha messo tra sé e Biden nei sondaggi, almeno per il momento, sembra scavato in queste fasce: sono persone che non s’informano attraverso i canali tradizionali e che non votano regolarmente.

Secondo le rilevazioni del New York Times, per esempio, Biden guadagna un paio di punti tra chi ha votato nel 2020, ma ne perde addirittura 14 tra chi è rimasto a casa. Che poi è il motivo per cui è davanti o rimane a contatto in molti tra i sondaggi che contano solo chi si è recato alle urne quattro anni fa, ma è invece più o meno sempre sotto in quelli che considerano tutti gli elettori registrati, indipendentemente dal grado di probabilità che a novembre vadano a votare o meno. Ora, siccome gli elettori non bianchi tendono a votare in media meno di quelli bianchi, ecco la nostra terza teoria che spiegherebbe perché queste minoranze si stanno spostando verso Trump: l’ex presidente guadagna in generale tra gli elettori meno attivi politicamente. I risultati di Starr County citati sopra sembrano confermarlo: in alcune aree particolarmente non bianche l’affluenza si sta alzando e una stragrande maggioranza di questi nuovi elettori preferisce i repubblicani.

Riallineamento?

Nel definire questi movimenti Burn-Murdoch ha coniato l’espressione racial realignment, riallineamento razziale. Nate Cohn, proprio del New York Times, ha contestato l’uso termine, sostenendo che nessun sondaggio può costituirsi riallineamento e che se anche questi numeri fossero confermati a novembre, diventando voti veri e propri, una singola elezione non basta per parlare di riconfigurazione della mappa – per di più davanti a equilibri che non sono nemmeno invertiti, ma alla meglio ribilanciati.

Tutto vero, i riallineamenti sono fenomeni di lungo periodo, un turno elettorale non è sufficiente a definirli, figuriamoci qualche sondaggio. Come abbiamo visto, però, i dati che emergono dalle rilevazioni sono particolarmente coerenti tra loro, stabili da mesi, e l’analisi nel suo complesso non si limita alle proiezioni relative al prossimo giro elettorale, ma prende in esame tendenze più ampie, ormai quasi decennali.

Certo, non sarebbe poi così sorprendente se Biden rientrasse, confermando alla prova delle urne margini tra le comunità di colore più in linea con le serie storiche. In particolare per quanto riguarda gli elettori a bassa affluenza, se tra quattro mesi rimanessero tutti a casa, cancellando il vantaggio teorico di Trump, non ci sarebbe nulla di strano. Sono in fondo unlikely voters, elettori improbabili, stanno a casa più volte che no per definizione. Però ecco, inutile negare che questi movimenti esistono, dati e controdati lo dimostrano. Quale ne sia la portata o la tenuta, poi, ce lo dirà la storia, a partire dal prossimo novembre.