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Trump, Biden e le tribolazioni di una democrazia di immigrati /01

Quando la composizione etnico-razziale della popolazione degli Stati Uniti si modifica, anche il popolo politico si trasforma e la democrazia americana attraversa periodi di crisi.

ARNALDO TESTI
03/05/2024

 


Questo articolo è apparso originariamente sul blog di Arnaldo Testi Shortcuts America ed è parte di una serie composta da diversi pezzi che sviluppano e approfondiscono il tema, qui la seconda puntata.

Gli Stati Uniti si sono definiti a lungo una “nazione d’immigrati”, ora lo fanno meno perché ci si rende conto della relativa parzialità dell’autodefinizione, del suo significato non innocente, non neutrale. Gli americani non sono solo immigrati o discendenti d’immigrati, cioè di persone che hanno deciso di lasciare il luogo di nascita per trasferirsi lì. Come in altri paesi d’insediamento coloniale nelle Americhe (e non solo lì), sono anche discendenti di deportati in schiavitù, gli africani, oggi gli afroamericani. E sono anche discendenti delle popolazioni native, che lì hanno sempre abitato, i native american.

E questo complica il quadro. Continuare a dire “nazione d’immigrati” rimuove, nasconde, cancella questa parte tragica della storia nazionale e le persone che la vissero. E tuttavia il quadro non lo annulla del tutto. Si può ben dire che gli americani siano un grande mix di popolazioni di origine diversa, di provenienza diversa, di discendenza diversa che convivono nello stesso territorio. Lo sono tutti i popoli un mix di questo tipo, nei secoli dei secoli, ma per gli americani (gli americani di tutte le Americhe) il fenomeno è recente, ancora vivo, ancora in atto. E’ un mix che oggi come oggi, ma in realtà da un secolo e mezzo, è alimentato soprattutto da nuove ondate migratorie, da paesi sempre diversi, da continenti sempre diversi.

E qui c’è il problema. Quando la composizione della popolazione degli Stati Uniti, e quindi del popolo politico, dell’elettorato, si modifica in modo vistoso per quantità e qualità etnico-razziale, allora la democrazia americana attraversa periodi di nervosismo, di crisi e di reazioni acute, positive e negative, e di tentativi di riassestamento, cercando nuove forme di convivenza civile. Ciò è accaduto per arrivi massicci dall’esterno, e questo è stato il caso del ciclo delle grandi migrazioni europee, dall’Europa meridionale e orientale, fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Oppure per una somma e combinazione fra arrivi dall’esterno e affrancamenti di gruppi razziali interni, e questo è il caso del ciclo dell’ultimo mezzo secolo, il ciclo delle grandi migrazioni latinoamericane e asiatiche e della rivoluzione dei diritti civili di neri e nativi.

I tempi di crisi, reazione e assestamento sono tempi lunghi, con tutte le pene del caso, cioè tensioni sociali, antagonismi politici, polarizzazioni culturali. Non sono cose che si risolvono con la bacchetta magica della buona volontà e dei buoni sentimenti. Ci sono di mezzo identità diverse, mentalità diverse, stili di vita diversi, e poi questioni di potere simboliche e ben reali nella società, nell’economia, nel mercato del lavoro, nella sfera pubblica, nella politica locale e nazionale, nel governo. Non sono cose che si aggiustano in un giorno, in nessun paese al mondo. Neanche in uno dei paesi che più di altri dovrebbe esserci abituato, appunto un paese fatto così, multietnico, multirazziale, da sempre.

La comparsa di Donald Trump sulla scena politica ha segnato il picco dell’ultima di queste crisi storiche legate ai mutamenti demografici etnico-razziali del paese. Dacché è entrato in politica, dal 2015-2016 fino al ritorno sulla scena di quest’anno, uno dei temi dominanti delle sue campagne, e sempre di più il tema dominante, è stato l’immigrazione. O meglio, l’idea che l’immigrazione stia cambiando e rovinando il paese. Stiamo subendo una invasione di gente diversa da noi, dice, siamo in pericolo; «questa gente sta conquistando il nostro paese». Ripete con toni sempre più allarmanti, incendiari: i nuovi arrivati «avvelenano il sangue del nostro paese» (usa parole che ricordano Hitler, ricordano Putin), forse non sono esseri umani, sono «animali», sono «stupratori messicani», bisogna blindare il confine con il Messico.

Aggiunge Trump: il presidente Biden, di cui peraltro non riconosce la piena legittimità, è il responsabile di tutto questo, è una minaccia per il paese. Secondo la sua campagna elettorale, Biden sta deliberatamente preparando un «bagno di sangue» alla frontiera, importa avanzi di galera da tutto il mondo e li scarica in America come se l’America fosse la discarica del mondo. E ciò provocherà tragedie sanguinose. Il partito repubblicano ha lanciato il sito BidenBloodbath.com che mette in guardia contro una «invasione [di migranti] sostenuta e facilitata da Joe Biden». Biden, naturalmente, risponde per le rime, soprattutto ora che le elezioni si avvicinano. Dice che è Trump a essere una minaccia esistenziale, una minaccia per l’esistenza stessa della democrazia americana.

A tutto questo si deve guardare per capire l’asprezza del conflitto politico in atto nel cuore del paese, la cattiveria della battaglia per la sua anima, the battle for the soul of the country. Una battaglia che sembra non fra competitori, non fra avversari, ma fra nemici. I segni della crisi, delle tribolazioni di una democrazia d’immigrati, ci sono tutti, in maniera esplosiva. Se e come la crisi verrà superata, se e come ci sarà un riassestamento in forme più tranquille di convivenza, sembra essere la posta in gioco. Sui risultati di questo serissimo gioco non è il caso di chiedere una previsione agli storici. Gli storici, che per professione si occupano del passato, sanno (o almeno dovrebbero sapere di sapere) quanto in ogni dato momento del passato stesso il futuro fosse imprevedibile.

Un paio di dati statistici aiutano a dare un’idea delle dimensioni dei fenomeni di cui si parla. Il primo dato è questo. Secondo il censimento del 2020 gli americani immigrati, nati all’estero, sono circa 51 milioni, il 15,3% della popolazione, oggi forse il 16%. (Tanto per fare un accenno di analisi comparata, in Italia, secondo dati Istat del 2022, i nati all’estero sono l’8,5% della popolazione, circa 5 milioni.) Di questi 51 milioni di nati all’estero, probabilmente 11 milioni risiedono nel paese senza permesso, sono cioè “non autorizzati”, unauthorized, un termine che è entrato nell’uso pubblico a sostituire illegal o undocumented. I nati all’estero erano appena il 5% della popolazione nel 1970, e questo racconta il grande cambiamento avvenuto nell’ultimo mezzo secolo.

Il secondo dato è questo, e racconta un cambiamento ancora più radicale. Nella popolazione generale gli americani bianchi di discendenza europea, di antica o recente immigrazione dall’Europa, sono in diminuzione da decenni. Erano praticamente il 90% nel 1960 (l’89% accanto all’11% di afroamericani). Sono scesi a meno del 60% nel 2020 (il 58% con il restante 42% di afroamericani e di persone di discendenza ispanica, asiatica, in misura molto minore araba e africana subsahariana). Secondo le proiezioni del Pew Research Center gli eurobianchi saranno meno della metà (il 47%) intorno al 2050, fra un quarto di secolo. E ciò provoca in loro, soprattutto nelle componenti più popolari, preoccupazioni per il futuro, anche un po’ di panico esistenziale.

Tutto nella politica di Donald Trump parla di reazioni a una democrazia in crisi di trasformazione dal punto di vista etnico-razziale.