ELETTORALIA

Decide il partito?

Cosa ci hanno detto le primarie sullo stato dei partiti americani. E forse della democrazia tutta

MARIO ALOI
06/03/2024

 


Il Super Tuesday più scontato di sempre – e in generale queste primarie formalmente ancora in corso, ma di fatto mai cominciate – ci costringono a una serie di riflessioni. L’anomalia è tale che sfuggire il confronto diventa impossibile, anche perché non è la prima volta che negli ultimi anni vediamo succedere cose inusuali, anzi. L’impressione è che la natura dei processi politici stia in qualche modo mutando.

Quasi sempre, per esempio, le primarie sono la parte più avvincente del calendario elettorale americano. Sono una competizione sequenziale, composta da tante elezioni diverse che s’influenzano a vicenda. E in più si svolgono all’interno dello stesso partito, con lo spettro ideologico concentrato. Gli elettori si muovono tra l’uno e l’altro candidato con maggiore facilità e frequenza, l’atmosfera è volatile, meno imballata rispetto al contest binario delle generali – più avvincente, appunto.

Non quest’anno, però. Nel 2024 tutto sembra così scritto e piatto che si fa fatica a rimaner svegli. Non solo. Oltre che avvincenti, le primarie sono il più delle volte un processo efficiente. Aiutano i partiti a fare sintesi, selezionare candidati più o meno preparati e ben visti dal pubblico. Persino negli ultimi anni, nonostante le apparenze. Oggi invece ci troviamo davanti a un paradosso: due candidati, Donald Trump e Joe Biden, che sembrano a tutti inevitabili, ma che al contempo piacciono solo a ristrette minoranze. Sono anche gli stessi candidati di quattro anni fa, quasi qualcosa si fosse ingolfato. Cosa pensarne?

Qualunque cosa ci dicano queste primarie riguarda almeno in parte i meccanismi di funzionamento dei partiti, e come si stanno trasformando. In che modo si organizzano e operano, intorno a cosa si definiscono – in pratica, come fanno programmi e scelgono i candidati. In un sistema come quello americano però i partiti non sono meri accessori della democrazia, ne sono le fondamenta. E quindi quello che fanno e diventano ha implicazioni che trascendono la loro struttura, sia logistica che ideologica.

Si fa presto a dire partito

Gli americani intendono il termine partito – e lo praticano – in maniera leggermente diversa da noi europei. Negli Stati Uniti i partiti hanno strutture leggere e il coordinamento centrale – il Comitato Nazionale Democratico o Repubblicano – è sempre solo logistico e finanziario, mai politico. Dal punto di vista politico, invece, il partito americano è una coalizione molto diversificata che include pubblici ufficiali, attivisti, finanziatori, gruppi di pressione vari e i professionisti che lavorano alle campagne. Tutte le persone che portano un qualche interesse all’interno della struttura insomma, oltreoceano direbbero gli stakeholders. Queste coalizioni sono alla costante ricerca di un punto d’equilibrio. La selezione del leader, di elezione in elezione, è il momento culminante di questa ricerca.

Le primarie sono quindi da intendersi come un gioco di coordinamento in cui i diversi gruppi cercano un modo di convergere sul candidato che rappresenta il miglior compromesso possibile tra le posizioni dei vari attori a livello politico/ideologico (diciamo la loro agenda) e la necessità di vincere le elezioni generali contro il partito avversario.

Il processo di selezione dei candidati presidenziali ha la forma attuale dall’inizio degli anni ’70, da quando cioè in seguito alla riforma McGovern-Fraser le élite di partito hanno consegnato la porzione maggioritaria di delegati necessaria ad assegnare la nomination agli elettori. Questo passaggio però non le ha completamente escluse dal processo, e a guardar bene non le ha nemmeno rese del tutto subalterne.

Nella stragrande maggioranza delle primarie dal 1972 al 2012 i partiti sono comunque riusciti a far eleggere i candidati che preferivano. Ogni volta o quasi sono arrivati all’inaugurazione delle operazioni di voto in Iowa avendo ristretto il campo interno abbastanza da indirizzare l’elettorato nella maniera più efficiente e precisa possibile. Senza dubbio nel post-riforma il lavoro degli apparati si è fatto più duro e complesso, ma la politica americana ha conservato un certo grado di organizzazione – e quindi le organizzazioni politiche che più o meno dall’inizio se ne sono fatte garanti hanno resistito, tenuto il ruolo, si sono adattate.

Negli ultimi tempi, però, il sistema e le strutture che lo tengono in piedi hanno iniziato a ballare. È toccato per primi ai repubblicani nel 2016, ma i democratici hanno seguito subito dopo, nel 2020. In entrambi i casi, il partito sfidante si è presentato in Iowa senza un candidato designato. Una miriade di opzioni da una parte e dall’altra, ma nessuna indicazione chiara da parte del cosiddetto establishment politico. Nessun principio organizzativo. Questo arretramento delle strutture di partito ha aperto lo spazio a due attori esterni ed estranei a queste stesse strutture in senso quasi letterale: Donald Trump e Bernie Sanders, due outsider in grado di mettersi con largo anticipo al comando della corsa. Entrambi rappresentavano minacce esistenziali all’ordine interno, a cui però i due partiti hanno reagito in maniera opposta.

Nel 2016 le varie opzioni repubblicane più o meno establishment – Marco Rubio, Ted Cruz, John Kasich – non riuscirono a coordinarsi, lasciando il voto antitrump frammentato e quindi sconfitto. Al contrario, i democratici del 2020 trovarono il modo di convergere su Biden in quella che era probabilmente l’ultima finestra disponibile, trasformando una gara tra 4/5 pesi medi in una sfida uno contro uno tra il senatore del Vermont e l’allora ex vicepresidente, che a quel punto riuscì a spuntarla. Certo, le elezioni alla fine le decidono gli elettori, ma senza questo repentino ribaltamento a livello di organizzazione del consenso l’esito sarebbe stato probabilmente differente.

La metà democratica di questa storia è peraltro anche particolarmente esemplificativa di come i sistemi partito e i loro elettorati interagiscano e siano interdipendenti. La convergenza su Biden fu innescata da un voto popolare, quello in South Carolina, che chiarì come l’unico candidato possibile da opporre a Sanders, il solo con una base almeno potenzialmente diversificata, fosse l’ex vicepresidente. Senza questa imbeccata, il partito da solo non aveva saputo scegliere. Ma guardando la stessa storia dal verso opposto è anche vero che la valanga di voti che Biden ha preso dopo l’investitura del partito non esisteva prima, o esisteva solo in South Carolina: in Iowa, New Hampshire e Nevada era finito parecchio indietro e i sondaggi dei giorni precedenti al Super Tuesday pendevano tutti dalla parte di Sanders. È l’organizzazione del consenso a produrre consenso: la comunicazione tra partito ed elettorato è costante e si muove in entrambe le direzioni.

Il fatto che però i canali di questa comunicazione si siano sbloccati tardi per i democratici del 2020 e mai per i repubblicani del 2016, e in due turni di primarie consecutivi, ci dice che probabilmente non siamo più davanti a eccezioni che confermano la regola, ma a un canone tutto nuovo. O almeno a una significativa variazione sul tema. I vecchi spartiti faticano, non tengono più. E quindi arriviamo al 2024.

Il partito non sa più decidere

Lo scorso novembre il giornalista americano Matthew Yglesias ha scritto un pezzo in cui, parlando proprio delle difficoltà dei partiti a stare insieme, portava come esempio il caso dell’età di Biden, che dal punto di vista elettorale rappresenta un problema enorme, lo rende un candidato fragile. Lo pensa il partito. Lo pensano gli elettori. Su questa cosa c’è consenso, sono quasi tutti d’accordo, ma – per usare le parole di Yglesias – questo consenso non è agibile.

Le perplessità al riguardo sono così diffuse che qualcuno gli ha dato voce persino sulle pagine del Washington Post e del New York Times, una roba mai vista. Eppure nessuno ha una soluzione, la candidatura di Biden rimane inevitabile. Anche sul versante repubblicano la situazione non è tanto diversa. Donald Trump è una scelta inefficiente per una serie lunghissima di ragioni e la sua portata distruttiva si propaga con raggio sempre più ampio non solo fuori, ma anche dentro il partito. Eppure, anche qui, la partita delle primarie non è di fatto mai esistita.

Secondo Yglesias il problema è che non lasciamo più fare agli addetti ai lavori il loro mestiere. Ma a guardar bene la questione parrebbe ancora un passo più grave, quello è solo il sintomo: non li lasciamo lavorare perché non gli riconosciamo più alcuna autorità. C’è almeno un segnale molto chiaro in questo senso.

La manovra con cui il Partito Democratico ha investito Joe Biden nel 2020 è stata percepita da molti sostenitori di Sanders come illegittima, un imbroglio. Un sentimento simile a quello emerso nel ‘68 dopo la contestata nomina di Humphrey, che portò alla riforma delle primarie. In entrambi i casi però ci fu davvero poco d’illegittimo, i partiti hanno seguito procedure standard, consolidate. Hanno rispettato i codici, al limite – nel ’68 – stiracchiandoli un pochino. La convergenza strategica tra gruppi con interessi comuni non è un broglio, è parte della politica, forse ne è addirittura l’essenza. Di sicuro ne è una delle tante definizioni possibili.

Quando processi politici di routine vengono percepiti come illegittimi, di solito il problema sta nel fatto che c’è una crescente divergenza tra il sistema di valori dei rappresentanti e quello dei rappresentati, perché i secondi si stanno spostando e le strutture – più rigide – reagiscono sempre con qualche ritardo.

L’idea di coinvolgere l’elettorato nei processi di selezione della classe dirigente dei partiti in modo diretto ha funzionato finché tra le due parti c’era una qualche forma di allineamento, ma oggi la voragine tra cittadinanza e istituzioni è così ampia che le strutture di raccordo ci cascano dentro. In società sempre meno mediate ma al contempo sempre più sfilacciate come le nostre, costruire reti di organizzazione che producano programmi a lunga gittata basati su esperienze sociali comuni sta diventando impossibile. E questo si riflette sui partiti, che nelle democrazie liberali sono la più centrale tra quelle reti organizzative.

È in un certo senso consueto e naturale che con l’alternarsi delle fasi storiche cambino i valori attorno ai quali si organizza la società e quindi ci sia un avvicendamento anche tra le autorità di riferimento, ma ora il momento è di transizione e il mondo nuovo non s’intravede ancora: l’autorità conserva il posto, per ora, ma non gli crede più nessuno. Le strutture che dovrebbero tenerci assieme, creare significato, non riescono più a contenere il reale. Non lo rappresentano, appunto. Troppo è cambiato nel modo in cui facciamo esperienza del mondo e senza nuovi contenitori tutto è dissociato. La prima spia di solito è che i processi sociopolitici diventano inefficienti, e ogni passaggio genera contraddizioni. Lo stiamo osservando in queste primarie. Un tempo la chiamavano crisi organica.