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Come parla Donald Trump

Una neolingua per un neomondo

MARIO ALOI
05/11/2024

 


Il romanziere e poeta americano Ben Lerner ha paragonato il discorso trumpiano a una sorta di linguaggio poetico negativo: «Trump rappresenta un’avanguardia: i non sequitur, l’uso che fa della disgiuzione, il modo in cui massacra la sintassi, fanno sembrare i suoi comizi una versione da incubo (e molto più affollata) delle letture pubbliche di poesie a cui partecipavo anni fa, dove il linguaggio non lineare era pensato come attacco all’armoniosa retorica politica borghese». Anche in Trump l’uso della lingua è di fatto un più o meno consapevole attacco alle strutture esistenti, ma non sembra inseguire un surplus di complessità che includa porzioni sempre crescenti di reale, come facevano le controculture del secolo scorso, al contrario svuota il linguaggio – e con esso il mondo – di significato.

Prendiamo il discorso con cui nel novembre 2022 l’ex presidente ha ufficializzato la terza candidatura dalla sua residenza privata di Mar-a-Lago, Florida. Quel giorno una parola in particolare s’infilava e riemergeva da quasi ogni frase: again, di nuovo. A contar le occorrenze, sta prima per distacco. Verso la fine è proprio entrato in loop, come del resto gli capita spesso. We will make America powerful again. We will make America wealthy again. We will make America strong again. We will make America proud again. We will make America safe again. We will make America glorious again. And we will make America great again. Impossibile non notare come lo slogan sia di base identico a quello di sei/otto anni prima, una cosa piuttosto insolita per la politica americana, dove tutto dev’essere nuovo, scintillante, fare effetto, sorprendere. O almeno far finta.

Quando usa il suo vecchio motto in questa nuova campagna però in effetti Trump ogni tanto aggiunge una piccola variazione, un extra-step semantico e sonoro che congela il senso generale, ma allo stesso tempo apre una dimensione semi-nuova. L’idea è sottile e grossolana insieme. Questa: Make America Great Again, Again. Non più il classico messaggio di restaurazione che omaggiava una delle più celebri ad line della destra americana, It’s Morning Again in America di Ronald Reagan, ma una rivisitazione che dà più la sensazione appunto del loop. Dal ritorno al passato – the good old times, il mito della perduta età dell’oro caro a qualunque conservatorismo – all’infinito avanti e indietro di un presidente per cui l’unica forma di restaurazione rimasta immaginabile è il ritorno a se stesso.

La prima caratteristica che definisce la sintassi trumpiana è quindi la ripetizione. La lingua di Trump è circolare, fa svolazzi anche molto ampi, ma senza andar mai di fatto da nessuna parte – anche perché pure le connessioni tra i giri che prende (e che perde) sono raramente lineari. E qui veniamo alla seconda qualità fondamentale di questa neolingua: la frammentazione. Il discorso trumpiano non è mai uno, sono ogni volta tanti discorsi insieme. Trump stesso l’ha spiegata così: «Quello che faccio si chiama weave. E sapete che cos’è? Parlo di tipo nove cose diverse insieme, che poi si uniscono tutte in un modo stupendo. Ci sono questi miei amici, che sono professori d’inglese, e mi dicono: ‘È la cosa più meravigliosa che abbia mai visto’. Ma la stampa in malafede invece cosa racconta? Che sproloquio. Ma non sono sproloqui. Funziona così: parti da un argomento, poi lo lasci per parlare un po’ di qualcos’altro, poi torni all’argomento di prima, e fai questa cosa per due ore di fila, e non sbagli nemmeno una parola…».

Il termine inglese weave significa tessitura, intreccio, ma anche zigzagare. Ben descrive il continuo cambio di direzione, ma non è vero che tutto si compone insieme in «modo stupendo». Non c’è tessitura in senso stretto. Anzi. La forza del discorso trumpiano se vogliamo sta proprio all’opposto, nel fatto che ogni input rimane separato, non c’è integrazione. I suoi discorsi alimentano il caos cognitivo in cui ha prosperato per tutti questi anni, perché da un lato sovrastimolano, mentre dall’altro affermano una volta per tutte che per raccontare non abbiamo bisogno di nessi. Nemmeno causali.

Torniamo a quel discorso di Mar-A-Lago. Trump descriveva l’America di Biden come una nazione zombie, buia e dannata. Sostanzialmente uno stato fallito. Toni pressoché identici a quelli con cui nel 2016 parlava del paese governato da Barack Obama. Come se in mezzo non fosse passato nulla. Eppure nella sua stessa ricostruzione le due fasi non sono ovviamente continue, a dividerle c’è la sua amministrazione, un’oasi di grande successo in cui tutti i problemi sono scomparsi per quattro anni, salvo poi riapparire immutati il giorno in cui ha lasciato lo studio ovale.

Per l’ex presidente le fasi storiche non sfumano l’una nell’altra, si alternano nette, senza rapporti di causa/effetto. Osserva la storia esattamente come costruisce le sue frasi: non sequitur. Il tempo in cui si muove non è solo immobile e ripetitivo, ma anche slegato e intermittente. Che pare un controsenso, e forse lo è, ma la mancanza di senso in questo caso è proprio il punto. La produzione di significato è una questione di accordo tra le parti, di dentro e fuori che vanno insieme, e oggi i criteri in base ai quali le nostre comunità cercano di produrre esperienze più condivise possibile per chi le abita sono in fase di rinegoziazione. Donald Trump è venuto a segnalarcelo.

Già nel 1986 lo storico Arthur M. Schlesinger Jr riconosceva come la società di massa e le sue accelerazioni tecnologiche stessero alterando la sostanza del discorso politico. «Per ovvie ragioni tecniche, la televisione si concentra sulle personalità, non sulle organizzazioni,» scriveva nel suo The Cycles of American History. «Sugli eventi immediati, non sulle tendenze storiche». E da questo punto di vista internet è andato addirittura oltre, frammentando tempo e spazio a un livello ancora maggiore. La weave trumpiana in qualche maniera ricorda il modo in cui apriamo una serie infinita di tab nei nostri browser internet, le lasciamo sullo sfondo e poi saltiamo dall’una all’altra – bit isolati di discorso, che convivono, ma non è che si mettano mai veramente assieme. Parafrasando Wittgenstein, potremmo dire che i limiti del linguaggio trumpiano sono i limiti del nostro mondo.

La pratica di giustapporre semplicemente le cose, negando qualsiasi intersezione, vorrebbe fare da argine alla crescente complessità del reale, che stordisce e va in qualche modo tenuta a bada. È tipico del discorso conservatore delle destre cercare di appiattire la realtà laddove diventa più stratificata, offrendo definizioni semplificate che riducano il contesto sempre più confuso e poroso a una serie d’identità rigide, tutte d’un pezzo – che non si toccano mai, figurarsi sfumare l’una nell’altra.

Terza caratteristica del linguaggio trumpiano dunque: la rigidità e piattezza delle forme. Tutto fa blocco unico. Pensate al suo approccio all’immigrazione, per esempio, che schiaccia il concetto di nazione fino all’essenziale ultimo dei suoi confini geografici, del suo perimetro: una formina in due dimensioni – we either have a country or we don’t, if we have a country, we have to have borders, we have to have laws, we either have a country or we don’t, and it’s that simple. Oppure quando si è messo a questionare il background etnico di Harris, per sua natura plurale, un’indeterminatezza che nel suo sistema concettual-valoriale è nemmeno intollerabile, quanto proprio incomprensibile – is she indian or is she black? Il mondo di Donald Trump è tutto disgiuntivo, oppure-oppure-oppure… Una catena di contrapposizioni.

E qui arriviamo all’ultimo passaggio, la quarta feature. La cupezza e aggressività del suo linguaggio, che spesso vira su toni apocalittici – perché un mondo di blocchi contrapposti, in cui nulla sta insieme, è per forza dannato. In un certo senso, potremmo dire che Trump parla alla sfera pulsionale del paese, la sua weave ha la struttura delle libere associazioni freudiane, un sistema di stimoli visivi e sonori[1] che sembra avere l’unica finalità di estrarre la dimensione nazionale inconscia, quella del rimosso rabbioso – diceva James Baldwin, «ci sono parecchie cose che gli americani preferiscono non sapere su loro stessi». La pulsione in fondo è sempre tensione aggressiva, conflitto irrisolto. Del sé contro sé. Quando il problema è collettivo può prendere la forma della polarizzazione politica, o di una guerra civile a bassa tensione. Una crisi organica in cui tutti i codici condivisi perdono consistenza: si appanna l’orizzonte morale, e insieme si slega la lingua.

 

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[1] Tanto astratto, pre-verbale, che alla fine si è fatto danza.