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Trump, Biden e le tribolazioni di una democrazia di immigrati /05

Quando la composizione etnico-razziale della popolazione degli Stati Uniti si modifica, anche il popolo politico si trasforma e la democrazia americana attraversa periodi di crisi.

ARNALDO TESTI
06/06/2024

 


Questo articolo è apparso originariamente sul blog di Arnaldo Testi Shortcuts America ed è l’ultima parte di una serie composta da diversi pezzi che sviluppano e approfondiscono il tema, qui le altre puntate.

Come governare in queste condizioni di delegittimazione reciproca? Biden ha fatto miracoli in un Congresso sempre in bilico per pochi voti fra repubblicani e democratici. Nei primi due anni della sua amministrazione ha avuto una maggioranza di 8 seggi alla Camera e di un seggio al Senato (in realtà 50 a 50, con la parità rotta a favore del partito del presidente dal voto della vicepresidente Kamala Harris). Negli ultimi due anni, dopo le elezioni di midterm del 2022, la Camera è diventata repubblicana per un pelo (oggi per 4 seggi, 217 a 213, con 5 seggi vacanti) e il Senato è rimasto democratico, ora sì 51 a 49. In queste condizioni, ripeto, Biden ha fatto miracoli dal punto di vista legislativo, è un vecchio parlamentare. È stato in Senato per mezzo secolo, conosce tutti i trucchi del mestiere, ha inventato compromessi quando ha potuto, ha trovato vie regolamentari traverse quando ha dovuto. Ma a un certo punto i miracoli sono finiti anche per lui.

L’ultimo fallimento ha riguardato, nelle settimane scorse, proprio l’aspetto più urgente e immediato della questione dell’immigrazione, la crisi in corso sulla frontiera con il Messico, dove la pressione dei migranti è alta, la burocrazia è sopraffatta, a pezzi, e l’opinione pubblica è allarmata. Biden ha provato a proporre poche elementari riforme che allentassero le tensioni e dessero l’impressione che il governo faccia qualcosa. In Senato ha concordato con alcuni repubblicani un pacchetto bipartisan che includeva misure di sicurezza, cioè l’aumento dei controlli e il reclutamento di nuovo personale di polizia, e misure di efficienza umanitaria, cioè l’assunzione di migliaia di funzionari e giudici che rendessero più spedite le procedure di ammissione per chi ne ha diritto, invece di lasciar marcire le carte (e le persone) per mesi o anni. Trump si è messo di mezzo, ha ordinato ai “suoi” legislatori in Congresso di non votare il progetto di legge, e loro hanno obbedito.

D’altra parte, siamo in campagna elettorale. E l’immigrazione è diventata una delle preoccupazioni principali del paese, secondo molti sondaggi la prima delle preoccupazioni. A febbraio, per Gallup, era la prima preoccupazione per il 28% degli americani, in particolare per il 57% degli elettori repubblicani e solo per il 10% degli elettori democratici. Gli elettori repubblicani vogliono più che mai nuovi muri lungo il confine (l’85% di loro, contro il 70% dieci anni fa) e negano più che mai che il razzismo sia un problema, pensano che appartenga al passato (il 61% contro il 48% di dieci anni fa). Naturalmente l’immigrazione irregolare è il cuore di tutte le paure, delle fantasie più dark. E’ ritenuta una «a critical threat» per il paese da una maggioranza di americani, il 55%, un record storico. Con la solita e drammatica spaccatura di partito: è «una minaccia fondamentale» per il 30% dei democratici e per un clamoroso 90% di repubblicani.

E infine c’è il tema politico più generale e più centrale dal punto di vista ideologico e culturale: gli Stati Uniti possono ancora vantarsi di essere, di restare, un paese aperto alle genti di tutto il mondo? Come non sempre sono stati nella loro storia, ma nella narrazione mitica nazionale sì? Secondo un recente sondaggio PBS/NPR/Marist di nuovo gli americani sono divisi in due. L’apertura alle genti del mondo continua a essere una caratteristica positiva «essenziale all’identità nazionale» per una maggioranza, ma ormai per una maggioranza molto risicata: appena il 57%. Per il 42% degli americani quell’apertura è invece un «rischio per l’identità nazionale», un altro record storico. E naturalmente non è difficile indovinarlo: è un rischio per una larga maggioranza (72%) di repubblicani, è invece cosa buona per una larghissima maggioranza (84%) di democratici. Così si sta andando al voto.

E’ possibile che tutto ciò metta in discussione il messaggio della Statua della libertà, la «madre degli esiliati» che tiene alta la sua fiaccola alla «porta d’oro» e accoglie i nuovi arrivati? E’ possibile che la fiaccola si sia spenta? Che sia diventata, come nel poster del film distopico Civil War, un nido di mitragliatrici? Sembra che sia possibile per molti americani, per quasi la metà, soprattutto repubblicani. Ma certo non è così per i migranti del mondo che continuano a guardare agli Stati Uniti come a una calamita, come al paese in cui vogliono entrare. Su 281 milioni di esseri umani che oggi vivono lontani da dove sono nati, la quota principale, 51 milioni (il 18%), risiede negli Stati Uniti. Inoltre molte indagini dicono che questi immigrati sono i residenti che hanno l’atteggiamento più positivo verso il loro futuro; almeno 8 su 10 lo vedono, per sé e i loro figli, malgrado difficoltà e discriminazioni, come migliore del presente e del passato. Sono insomma, almeno loro, i nuovi americani, una iniezione di ottimismo in un paese al momento non particolarmente allegro.

In questo paese poco allegro, molto ansioso, le prossime elezioni presidenziali e congressuali decideranno qualcosa d’importante a proposito dei caratteri, della natura del suo sistema democratico. Oppure no. Sono ormai molti gli appuntamenti elettorali a cui gli americani sono arrivati evocando Armageddon, il luogo biblico dove, secondo il Nuovo Testamento (l’Apocalisse), si combatterà la battaglia finale fra il bene e il male, fra Dio e le forze alleate della Bestia. Così è stato nel 2016 con Trump contro Hillary Clinton, nel 2020 con Biden contro Trump; quest’anno lo scontro si ripeterà. Il prossimo novembre sarà un momento critico, un momento di vera svolta? Nella retorica infiammata dei più faziosi, potrebbe essere addirittura l’ultima elezione? Oppure sarà di nuovo un momento di stallo, con vittorie risicate di una parte o dell’altra che rinviano a scontri successivi? Nessuno lo sa.

La questione dell’immigrazione e delle trasformazioni demografiche del paese giocherà, in linea generale, un ruolo rilevante. Giocherà un ruolo specifico negli swing state, gli stati in bilico dove è probabile che si sceglierà il prossimo inquilino della Casa Bianca. Lo sceglieranno gli elettorati multietnici e multirazziali di Pennsylvania, Michigan e Wisconsin, gli afroamericani di Georgia e North Carolina, gli ispanici di Arizona e Nevada. In alcuni di essi, a decidere davvero, potrebbero essere gruppi etnico-religiosi specifici che reagiscono non alla questione dell’immigrazione in sé ma a vicende internazionali che riguardano le loro comunità di origine fuori degli Stati Uniti. E’ sempre successo nel corso della storia americana, con i cittadini di discendenza irlandese, italiana, tedesca, e infine messicana che, in momenti diversi del passato, hanno reagito a ciò che succedeva in Europa e nel vicino Messico, e alle relative politiche americane.

Le domande di oggi sono queste. Come si comporteranno gli elettori Jewish-American di fronte agli eventi di questi mesi in Medio Oriente? E alle loro ripercussioni nei campus delle università americane? E soprattutto, e questa è la vera novità, come si comporteranno i cittadini di recente immigrazione e di discendenza araba, palestinese, musulmana? Sono in genere democratici, ma potrebbero negare il voto al presidente Biden per via della sua politica israeliana. Non sono tantissimi (i musulmani sono quasi 5 milioni, ma molti sono afroamericani convertiti; gli Arab-American sono forse 3 milioni, ma molti cristiani) e tuttavia in alcuni stati sono abbastanza concentrati da avere un certo potere. Il caso più delicato è quello del Michigan. E’ un swing state che Biden deve vincere a tutti i costi. Nel 2020 lo ha vinto per 150.000 voti su un totale di 5,5 milioni; intorno a Detroit ci sono abbastanza Arab-American e Palestinian-American arrabbiati da impedirgli di farlo di nuovo. Potrebbero astenersi. La guerra di Gaza potrebbe contribuire a una vittoria di Trump.