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Trump, Biden e le tribolazioni di una democrazia di immigrati /04

Quando la composizione etnico-razziale della popolazione degli Stati Uniti si modifica, anche il popolo politico si trasforma e la democrazia americana attraversa periodi di crisi.

ARNALDO TESTI
31/05/2024

 


Questo articolo è apparso originariamente sul blog di Arnaldo Testi Shortcuts America ed è parte di una serie composta da diversi pezzi che sviluppano e approfondiscono il tema, qui le altre puntate.

L’operazione di politica economica dell’amministrazione Biden è stata enorme in termini finanziari, e certo ha avuto conseguenze rilevanti anche di tipo protezionistico e d’incremento del debito pubblico. Ma qui è più importante sottolinearne alcuni altri aspetti e, con essi, uno dei suoi sensi squisitamente politici. Gli investimenti sono andati a colpire proprio lungo le fratture sociali dove il malessere etnico e razziale è maggiore, si è accumulato, è stato crescente negli ultimi anni e decenni. Cercando di attenuarlo quel malessere, per il bene del paese, d’accordo, ma anche per il bene del presidente e del Partito Democratico.

Negli anni di Obama, dopo la grande recessione del 2008, l’economia aveva creato milioni di nuovi posti di lavoro, con un saldo netto di 9 milioni rispetto alla situazione pre-crisi. E tuttavia, per varie ragioni, a usufruirne di più erano stati i lavoratori non-bianchi, mentre i bianchi erano rimasti al palo, anzi avevano subito una perdita netta. Durante la recessione la maggioranza dei posti svaniti era stata nelle occupazioni qualificate con buoni salari, storicamente bianche (grande industria, edilizia, pubblico impiego). I posti creati nella successiva ripresa erano invece i cosiddetti McJobs, poco qualificati e poco pagati, magari part-time, affollati di minoranze (vendita al dettaglio, ristorazione, servizi personali). Con simili sviluppi non è difficile pensare che siano cresciute animosità e polarizzazioni etnico-razziali, nelle comunità e nelle schede elettorali.

L’amministrazione Biden ha cercato di mettere in moto un trend opposto. Ha certamente investito risorse nelle aree regionali ed economiche che sono d’interesse per gli afroamericani, per le comunità tribali native, per le comunità immigrate ispaniche e asiatiche. Ma ha insistito nell’investire e nel creare milioni di posti di lavoro anche nelle aree working class più tradizionali, nell’industria manifatturiera (forse un milione di posti di ritorno) e nell’edilizia, nelle regioni storicamente afflitte dalla deindustrializzazione, le regioni del grande scontento bianco, la cintura che va dalla Pennsylvania al Michigan al Wisconsin. Dove la vecchia classe operaia bianca si è sentita tradita, abbandonata, e per reazione e protesta ha spostato una parte dei suoi voti verso il Partito Repubblicano.

Sono posti di lavoro che hanno la caratteristica d’includere, come ama dire Biden, good-paying union jobs, cioè che pagano decenti salari sindacali. A favore dei sindacati Biden si è sempre vantato di esserlo perché, dice, hanno creato la middle class e perché sono organizzazioni multietniche e multirazziali. Ora l’ha confermato con una mossa storica. «Sono orgoglioso», ha detto, «di essere il primo Presidente nella storia americana ad aver partecipato a un picchetto di scioperanti». L’ha fatto l’autunno scorso, durante lo sciopero del sindacato UAW per il rinnovo del contratto di lavoro contro i tre giganti dell’industria automobilistica, nel caso specifico contro la General Motors, in una cittadina del Michigan. Uno sciopero importante e alla fine vittorioso.

Insomma, Biden e i democratici hanno tentato di fare due cose insieme: curare le ferite, allentare le tensioni lungo la linea del colore che attraversa la società, e allo stesso tempo difendere e rafforzare la propria base elettorale, la propria coalizione elettorale. Se pezzi di classe operaia bianca lasciano il partito verso i repubblicani, se pezzi di minoranze etniche e razziali e immigrate perdono entusiasmo e magari vanno di meno alle urne, per i democratici sono guai. La domanda è: stanno rendendo queste operazioni in termini di effetti politici sulle preferenze di partito? Stanno portando consenso ai democratici e a Biden stesso?

Per ora è difficile dire. Forse è troppo presto per vedere effetti partisan, o forse è troppo tardi perché cambi davvero qualcosa. A questo punto della corsa elettorale presidenziale, a metà maggio, le medie dei sondaggi di Real Clear Politics dicono che i due candidati sono vicini ma con Trump in vantaggio in tutti gli indicatori. Il vantaggio di Trump c’è nell’elettorato nazionale, irrilevante dal punto di vista costituzionale ma politicamente indicativo; e questo è vero sia nello scenario teorico di un testa-a-testa (poco più di 1 punto) che, di più (2,8 punti), nello scenario realistico che metta in campo le principali candidature indipendenti, quella ambiziosa di Robert Kennedy Jr. e quelle più piccole di sinistra (Jill Stein del Green Party e Cornel West). Il vantaggio di Trump c’è anche nei cosiddetti swing state, gli stati in bilico in cui si decidono davvero le cose, alcuni dei quali sono vecchie conoscenze: Pennsylvania, Michigan e Wisconsin.

Il mood del paese è negativo, più di 6 americani su 10 pensano che vada nella direzione sbagliata. E Biden continua a essere impopolare, ha un tasso di approvazione molto basso su alcune questioni decisive. Solo 4 americani su 10 approvano la sua gestione dell’economia. La quale economia, come s’è visto, va bene nei grandi numeri ma, con tutta evidenza, non trasferisce la bontà di quei numeri nella esperienza quotidiana dei cittadini. I salari stanno salendo un po’, ma dopo anni, anzi decenni di stagnazione. E poi c’è la realtà e lo spettro dell’inflazione. Che è rientrata dall’impennata che aveva avuto nell’estate del 2022 (+9% nel mese di giugno), ma che continua a marciare con tassi variabili fra il 3% e il 3,5%. E soprattutto: le conseguenze dell’impennata di due anni fa sono ancora tutte lì nel bilancio famigliare, scritte nei prezzi del supermercato, caricate sugli interessi del mutuo per la casa.

La questione dell’immigrazione è ancora più problematica, anzi è la più problematica di tutte, il vero cuore delle difficoltà dell’amministrazione, anche per via delle sue origini storiche di lungo periodo. Qui l’approvazione di Biden è bassissima, riguarda solo 3 americani su 10. E deve fare i conti con una ben maggiore popolarità di Trump; i suoi feeling in materia sembrano incontrare l’approvazione di una metà degli americani. Sarà grazie alla sua retorica infiammata e fasulla sugli immigrati che commettono più crimini dei cittadini (non è vero) o che danneggiano l’economia (non è vero)? O grazie alle sue promesse di espellerne milioni, di usare l’esercito a guardia di campi di detenzione, di ridurre anche l’immigrazione legale?

Il fatto è che le posizioni sull’immigrazione sono diventate bandiere identitarie nelle guerre culturali, affermazioni non negoziabili al pari di altre su cui è difficile fare i compromessi necessari alla convivenza civile (dall’aborto all’idea di gender). Sono entrate nella macchina della polarizzazione partisan, per cui i due partiti principali si considerano così distanti da considerarsi nemici. A livello di ceto politico non collaborano nelle assemblee legislative, fino alla paralisi. Fra i cittadini, molte persone vedono gli elettori del partito avverso come immorali e disonesti, come una minaccia per la democrazia, sono spaventati all’idea di una loro vittoria, non vogliono che i figli si sposino fra loro. L’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 non è un caso, la convinzione dei repubblicani che Biden abbia vinto con dei brogli elettorali non è un caso. Come governare in queste condizioni di delegittimazione reciproca?