ELETTORALIA

Gli asiatici americani: un fattore nelle prossime elezioni?

Sono una delle minoranze di cui si parla meno, ma hanno tassi di crescita demografica tra i più alti del paese, in costante crescita negli ultimi quindici anni

MATTEO PRETELLI
02/11/2024

 


Quelle del 5 novembre saranno elezioni che si giocheranno sul filo di lana, al punto che poche migliaia di voti potranno fare la differenza e assegnare i grandi elettori in palio negli stati quest’anno in bilico. Per questa ragione democratici e repubblicani stanno lavorando per portare alle urne più elettori possibile. La campagna di Harris, in particolare, sta sviluppando messaggi specifici rivolti a un gruppo piuttosto seguito in questa tornata elettorale, quello degli asian american, ovvero gli statunitensi di origine asiatica.

Si tratta di una macro-minoranza che racchiude persone di una ventina di origini nazionali diverse e che sta ricevendo una certa attenzione perché assai numerosa (ben 24 milioni di persone) e con tassi di crescita demografica in costante aumento negli ultimi quindici anni. Gli asiatici sono anche il segmento di elettori potenziali (eligible voters) espressione di minoranze più in espansione nel paese. Dati d’inizio settembre mostrano infatti come gli AAPI, cioè gli americani di discendenza asiatica e dell’isole pacifiche statunitensi (Guam, Samoa, Marianne settentrionali), siano coloro che fra gennaio e giugno 2024 hanno maggiormente alzato, rispetto al ciclo elettorale del 2020 e ad altri gruppi minoritari, il proprio tasso di registrazione per partecipare al voto.

E pensare che negli anni Sessanta gli asian american erano appena un milione circa. Oggi, invece, rappresentano il 5% dell’elettorato potenziale a livello nazionale, e gli analisti li considerano di grande interesse, considerati i numeri altissimi di coloro che si sono recati alle urne nelle consultazioni elettorali di metà mandato del 2018 e nelle ultime presidenziali del 2020, anno in cui furono moltissimi coloro che votarono per la prima volta.

In questi dati rientra anche la Georgia, allora come oggi fra gli stati in bilico, andata nel 2020 a Biden grazie anche al voto dei tanti elettori asiatici che vi risiedono. Potranno quindi avere un peso decisivo nelle prossime elezioni? Probabilmente sì, specialmente rispetto alla competizione elettorale proprio negli swing state, dove gli elettori AAPI sono ben 1,5 milioni. In Nevada un votante su dieci è di discendenza asiatica, mentre in Pennsylvania questi rappresentano solo il 3%, ma potrebbero risultare decisivi in una gara in cui i due candidati risultano appaiati. Insomma, un elettorato “appetibile” su cui sia il partito dell’asinello sia quello dell’elefantino hanno concentrato le proprie attenzioni.

La tendenza elettorale sembra avvantaggiare il Partito Democratico, contando anche sul fatto che Kamala Harris aveva una madre indiana, giunta negli Stati Uniti per specializzarsi nella cura del cancro. Dalle elezioni presidenziali del 2000 in poi, gli asiatici hanno stabilmente votato per i democratici, esprimendo il 70% circa dei consensi a loro favore nel 2008, 2012 e 2016. Le ultime rilevazioni di fine settembre 2024 – della University of Chicago per conto dall’organizzazione apolitica no profit Asian & Pacific Islander American Vote (APIA Vote) – indicano come il voto AAPI registri una certa crescita del consenso per i democratici dall’uscita di scena dalla corsa presidenziale di Joe Biden. Harris conterebbe infatti sul 66% dei consensi elettorali, con Trump fermo al 28% e un 6% d’indecisi. Un bel balzo in avanti rispetto alla primavera di quest’anno, quando Biden faceva registrare appena il 46%, contro il 31% di Trump e ben il 23% di coloro che si dicevano indecisi o pronti persino a votare un candidato terzo.

Inoltre, a un mese dalle elezioni, Kamala Harris registrava un tasso di popolarità personale fra gli asian american del 62% contro appena il 28% di Trump, probabilmente vittima della sua stessa offerta politica radicale e dei suoi toni spesso sopra le righe, quando non addirittura razzisti. Del resto, negli anni della sua presidenza il tycoon ebbe parole molto dure nei confronti soprattutto dei cinesi, che arrivò ad accusare di essere responsabili della pandemia di Covid. L’ex presidente utilizzò espressioni forti come «China virus», «Wuhan virus» e persino «Kung Flu» che, ampiamente diffuse dai media conservatori, contribuirono all’aumento dei “crimini d’odio” (hate crime) negli Stati Uniti, di cui furono fatti oggetto molti asian american. Tutto ciò, del resto, s’inserisce in una tendenza storica di lungo corso, dal momento che sin dall’Ottocento gli asiatici hanno subito lo stigma di un acceso pregiudizio, erano spesso descritti come «diversi razzialmente» e «inassimilabili» e spinti ai margini della società bianca e cristiana americana.

È quindi possibile che molti statunitensi di discendenza asiatica possano orientarsi nelle prossime presidenziali verso Harris. Ma il condizionale è d’obbligo, in virtù del fatto che i democratici hanno visto ridursi il loro consenso all’interno di questo particolare gruppo nelle presidenziali del 2020 e nelle elezioni di metà mandato del 2022. Niente può essere quindi dato per scontato: ad esempio, nel 2022 gli elettori del quartiere cinese di Sunset Park, a Brooklyn, tradizionalmente democratico, hanno reindirizzato il proprio voto a favore di Lee Zeldin, candidato repubblicano alla poltrona di governatore dello Stato di New York, spinti probabilmente dal crescente tasso di criminalità registrato in città. Sempre nel 2022, il repubblicano George Abbott è stato riconfermato governatore del Texas con il 52% del voto asiatico. A ciò si aggiunge il fatto che, fino a pochi mesi fa, gli asian american facevano registrare nei sondaggi tassi di fidelizzazione ai democratici ridotti rispetto alla media nazionale. È pertanto ipotizzabile che i proclami di Trump legati al tema della tutela della famiglia tradizionale, così come quelli sull’inflazione, possano fare breccia in parte di questo elettorato.

I democratici, però, stavolta sembrano essersi mossi con maggiore impegno rispetto ai loro antagonisti per mobilitare le comunità asiatiche, superando precedenti riottosità dovute anche al costo elevato nel tradurre, a uso dei media etnici, i messaggi elettorali in una serie di lingue asiatiche parlate negli Stati Uniti. Lo staff di Harris si è pertanto adoperato per mettere in rilievo proprio la crescita del sentimento d’odio anti-asiatico diffusosi durante l’amministrazione Trump, dal momento che i sondaggi indicano come razzismo e discriminazione rappresentano i principali temi d’interesse per gli asian american. Si è poi posta in evidenza l’origine indiana della madre della candidata presidenziale democratica, quest’ultima proposta con l’enfatico slogan She is one of us. Messaggi ad hoc a uso dei media sono stati poi inviati a micro-obiettivi della società statunitense, quali la comunità Hmong, gruppo etnico originario della Cina e del Sudest asiatico che in Wisconsin conta 38.000 potenziali elettori. L’interesse nasce dal fatto che Biden nel 2020 vinse lo stato per appena 22.000 voti e storicamente questa comunità non ha mai registrato un alto tasso di partecipazione alle urne. In maniera simile, i filippini sono stati fatto oggetto di attenzione in Nevada, i coreani in Georgia, mentre in North Carolina gli strateghi democratici hanno “scovato” 5.000 nuovi elettori da tentar di mobilitare. In generale, poi, in tutti gli swing state di questa tornata elettorale ci si è concentrati sui due gruppi più numerosi, i cinesi e gli indiani. Un costoso micro-targeting, quindi, messo in atto grazie anche a eventi elettorali che hanno coinvolto Tim Walz, candidato alla vicepresidenza di Harris, e che hanno l’obiettivo di convincere quanti più asiatici possibile a votare in modo da impedire a Trump di riconquistare la Casa Bianca.

I repubblicani, invece, hanno adottato una strategia meno specifica, indirizzando un messaggio (rivolto anche ad afroamericani e latini) dal sapore “nostalgico” e focalizzato sull’idea che l’economia avesse un miglior andamento nei quattro anni gestiti dall’ex presidente. Trump, del resto, non ha smentito il suo tipico approccio personalistico alla politica fatto di slogan semplificati, come in occasione di una visita estiva in un centro commerciale vietnamita in Virginia, durante la quale ha banalmente detto che la comunità vietnamita lo amava e lui ricambiava tale sentimento.

Sempre le rilevazioni di settembre di APIA Vote indicano come il 62% degli elettori asiatici sarebbe stato contattato dai democratici, contro il 46% dai repubblicani. Un bel balzo in avanti rispetto alla primavera, periodo in cui i dati erano stati rispettivamente il 45% contro il 38%, a riprova quindi di uno sforzo consistente del comitato elettorale di Harris per trovare quei voti necessari a conquistare la Casa Bianca. A ciò si è aggiunto un apprezzamento nei suoi confronti comprovato da ingenti finanziamenti ricevuti da donatori asiatici nei primi giorni della campagna elettorale della vicepresidente di Biden. È tuttavia da registrare come il 27% degli asiatici denunciasse ancora la mancanza di qualsiasi tipo d’interlocuzione con rappresentanti di entrambi i partiti (in primavera il dato era del 42%), lasciando così ancora margini per una manovra d’intervento.

Gli asian american rappresentano un elettorato che, come spesso accade per le minoranze, appare fortemente variegato, registrando livelli economici assai differenti. E ovviamente anche le identità sono variabili. L’etichetta «asian american» racchiude infatti individui che non necessariamente amano identificarsi come tali, preferendo magari termini quali «asian», «american» o più semplicemente «indian», «vietnamese» e via dicendo sulla base della nazionalità di origine. Ben sette milioni risiedono in California, con comunità numerosissime anche negli Stati di New York e Texas. Colpisce poi la vivacità di un gruppo piuttosto giovane (due terzi ha meno di 44 anni), che attribuisce grande importanza all’istruzione e che raggiunge redditi superiori alla media nazionale.

Gli indiani, in particolare, fanno la parte del leone, essendo ormai coloro che contano nel paese il maggior numero di persone nate all’estero e che, grazie a elevatissimi redditi e qualifiche professionali, costituiscono oggi una rilevante lobby etnica capace di condizionare le relazioni fra gli Stati Uniti e Nuova Delhi, come in occasione della firma nel 2008 dell’accordo fra i due paesi sul nucleare civile. In North Carolina, Georgia e Michigan, tutti stati in bilico, gli indiani rappresentano il principale gruppo etnico all’interno della comunità asian american, mentre se ne contano ben 70.000 in Arizona.

A parere di Christine Chen, co-fondatrice e direttrice esecutiva di APIA Vote, la comunità asiatica negli Stati Uniti è pronta a giocare un ruolo importante nelle prossime elezioni. Dalle sue parole appare chiaro come democratici e repubblicani non stiano più trascurando, o dando per scontato, il voto della comunità. Al contrario, si stanno muovendo attivamente per raggiungere questi elettori e coinvolgerli intorno a temi di loro interesse. Vedremo quindi se la loro mobilitazione risulterà decisiva, soprattutto per Harris, per ottenere la nomina a prossimo presidente degli Stati Uniti.