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L’immigrazione è al centro della campagna elettorale

Il fatto che l’America stia cambiando pelle si riflette sulla politica

ARNALDO TESTI
24/10/2024

 


Questo articolo è apparso originariamente sul blog di Arnaldo Testi Shortcuts America

L’immigrazione è al centro della campagna elettorale che si sta chiudendo.

E’ una delle principali preoccupazioni degli elettori, insieme all’economia, all’inflazione. E’ la issue numero uno per Donald Trump che dichiara: «Gli Stati Uniti sono un paese occupato. Il 5 novembre sarà il giorno della liberazione». E che diffonde grottesche narrazioni ottocentesche sugli stranieri che avvelenano il sangue della nazione, che son tutti avanzi di galera, che mangiano i gatti dei vicini. I dibattiti e gli scontri politici parlamentari riguardano misure specifiche sui modi di contrastare l’immigrazione che il governo definisce «non autorizzata» e che il pubblico chiama illegale. Ma i conflitti sociali e culturali a cui fanno riferimento, e che danno loro un senso di urgenza esistenziale, sono molto più ampi, riguardano gli immigrati in generale (anche quelli autorizzati), i cambiamenti demografici in atto, la natura stessa della società.

Riguardano il fatto che la società americana sta cambiando pelle.

Nell’ultimo mezzo secolo gli americani nati all’estero sono passati dal 5% della popolazione al 16%, come negli anni di picco della prima grande ondata migratoria, un secolo fa. I nuovi arrivati sono più di 60 milioni, di tipo molto diverso da quelli di allora, che erano di origine europea. Ora tutto è cambiato. I nuovi migranti vengono per metà dalle Americhe a sud del Rio Grande, sono quindi ispanici; per un altro quarto vengono dall’Asia, un po’ dal Medio Oriente e dall’Africa subsahariana, solo spiccioli dall’Europa (Russia). Il risultato è che i residenti bianchi euro-discendenti sono in netta diminuzione da decenni, erano l’89% nel 1960, sono il 58% nel 2020 e intorno al 2050 saranno il 47% – saranno cioè minoranza. E ciò provoca, soprattutto nelle loro componenti più popolari, paure per il futuro, ansie da perdita di status, incertezze esistenziali. In alcuni gruppi provoca reazioni rabbiose, anche eversive.

Provoca comunque reazioni politiche.

La principale reazione politica è stata la crescita del Partito Repubblicano come partito dei bianchi, a cominciare da Richard Nixon e Ronald Reagan. Di questo processo Trump è stato sia il prodotto che il rabbioso imprenditore finale. Basti pensare a quanto c’è di reale e di simbolico nella sua vittoria del 2016. Trump è stato eletto come beniamino dei nazionalisti bianchi subito dopo il primo presidente afroamericano, Barack Obama. L’ingresso di una famiglia nera alla Casa Bianca sembrava aver abbattuto una storica barriera razziale, così almeno titolò in un momento di ottimismo il New York Times. E invece no, almeno nei tempi brevi della politica, magari nei tempi lunghi della storia si ricorderà questo evento come un nuovo inizio? Sul breve comunque è successo il contrario, il presidente afro-discendente ha incarnato i timori e accentuato le resistenze dei bianchi.

Trump è un presidente senza precedenti perché il suo predecessore Obama era senza precedenti.

Basti pensare alla composizione etnico-razziale del suo elettorato. Gli elettori di Trump nel 2016 erano per l’88% bianchi non-ispanici, praticamente una fotografia dell’America del 1960. Gli elettori della candidata democratica Hillary Clinton erano invece per il 60% bianchi, per il resto ispanici, asiatici, people of color, praticamente una fotografia dell’America contemporanea. Nei grandi numeri, ciò fa del Partito Democratico il partito multietnico e multirazziale di oggi. E del Partito Repubblicano il partito dei bianchi di ieri. In effetti, quando i seguaci trumpiani si definiscono membri del movimento MAGA, Make America Great Again, invocano il ritorno a un momento della storia in cui il paese era non tanto una potenza imperiale quanto una comunità bianca, omogenea, provinciale. Con le associate anchorché non dette, ahimé, rigide gerarchie razziali.

Questa è la nostalgia dei MAGA baseball caps rossi.

Anche per questo le posizioni politiche sulle faccende migratorie sono diventate bandiere ideologiche. Non riguardano più questioni di policy da discutere e gestire praticamente e pragmaticamente, tipo che fare dei 10 milioni d’immigrati non autorizzati presenti sul territorio nazionale, oppure come rendere più efficienti, veloci e giuste le procedure d’ingresso autorizzato. Sono piuttosto finite negli ingranaggi delle guerre culturali, questioni d’identità non negoziabili che contribuiscono alla polarizzazione politica. L’immigrazione non autorizzata è diventata il cuore di paure cosmiche e fantasie distopiche che spaccano in due il paese. Per più della metà degli americani (55%), un record storico, si tratta di una «minaccia esistenziale» per la nazione. E ciò è vero per il 90% dei repubblicani e solo per il 30% dei democratici.

Il paese è spaccato in due secondo linee di partito.

C’è di più. Crescono i dubbi sul fatto che gli Stati Uniti possano continuare a vantarsi di essere un paese aperto alle genti di tutto il mondo. Un vanto che sta scritto, anche se spesso tradito, nella mitologia nazionale e in quel simbolo centrale che è la Statua della Libertà, «madre degli esiliati». L’apertura continua a essere cosa buona, una caratteristica «essenziale all’identità nazionale», per una maggioranza, ma ormai per una maggioranza risicata: il 57% di americani. Per il 42% l’apertura è invece un «rischio per l’identità nazionale», e anche questo è un record storico. Anche qui la divisione del paese è una divisione per partiti piuttosto netta. L’apertura a gente di tutto il mondo è un pericolo per una larga maggioranza (72%) di repubblicani, è invece una benedizione per la stragrande maggioranza (84%) dei democratici.

Così si sta andando al voto.

E’ possibile che la fiaccola di Lady Liberty che accoglie i nuovi arrivati accanto alla «porta d’oro» del Nuovo mondo si sia spenta come in tante immaginazioni pop? O che diventi un nido di mitragliatrici, come nel poster del film Civil War (2024)?

E’ possibile ma anche no, ché niente è scritto. Sembra – e conviene dirlo per chiudere con una nota un po’ meno dark – che quella fiaccola continui a far luce almeno per i migranti del mondo. Che ancora guardano agli Stati Uniti come a una calamita, come a una meta dei loro particolari movimenti di opinione, fatti di opinioni che si muovono con i piedi. Su 281 milioni di esseri umani che vivono lontano da dove sono nati, la quota maggiore, 51 milioni (il 18% nel 2020), risiede qui. E molte indagini dicono che proprio fra questi nuovi residenti ci sono gli americani con l’atteggiamento più positivo verso il futuro. Quasi tutti, otto su dieci, lo vedono per sé e i loro figli come migliore del presente e del passato. Malgrado difficoltà e discriminazioni. Sono insomma, almeno loro, una iniezione di ottimismo in un paese non tanto allegro, di questi tempi.