ELETTORALIA 

Per i candidati gli Stati Uniti sono sempre in declino

È un messaggio elettorale tipico, ma il nuovo ticket democratico sta provando un approccio diverso

JONATHAN SCHULMAN
02/10/2024

 


Questo articolo è apparso originariamente su The Conversation.

I candidati presidenziali tendono a parlare di quanto la nazione sia in declino quando fanno campagna. Parecchio. Durante il dibattito tra Donald Trump e Joe Biden di giugno, per esempio, è stato uno dei temi centrali. «Non siamo più un paese che il resto del mondo rispetta» ha detto Trump, ed è un concetto che esprime spesso.

L’ex presidente è andato avanti dicendo che se gli Stati Uniti avessero un leader che Putin tiene in una qualche considerazione, «non avrebbe mai invaso l’Ucraina». E poi ha aggiunto che «ci ridono dietro» e che «la reputazione degli Stati Uniti da quando Biden sta al comando è pessima».

Il presidente ha risposto a questo tipo di retorica evocativa argomentando che gli Stati Uniti hanno «uno dei migliori eserciti della storia» e che all’estero rimane un paese molto rispettato. «L’idea che saremmo questa specie di stato fallito», ha detto Biden, «non ho mai sentito un presidente parlare in questo modo prima d’ora».

In generale, i sondaggi su cosa pensino all’estero degli Stati Uniti confermano questa idea, ma i politici parlano da sempre di declino americano perché aiuta a evocare tutta una serie di paure a livello di sicurezza, ansie che altre nazioni stiano diventando più influenti, o rabbia per i vari problemi del paese.

Il declino della nazione lungo la storia

Pur ammettendo che tutti i discorsi di Trump sul disastro in cui versa il paese rimangono piuttosto estremi, questo tipo di retorica non è inusuale nella politica americana.

Durante la campagna del 1960, per esempio, John F, Kennedy, allora senatore del Massachusetts, ripeteva spesso che gli Stati Uniti erano sul punto di esser scavalcati dall’Unione Sovietica in quasi tutti i campi, corsa allo spazio e leadership internazionale inclusi. «Non voglio che tra dieci anni gli storici parlino di questo passaggio storico come l’inizio della fine», disse durante il primo dibattito di sempre trasmesso in televisione, il 26 settembre appunto del ’60, contro l’allora vicepresidente Richard Nixon.

Da quel momento, i riferimenti al declino nazionale sono diventati messaggio elettorale di routine, con il partito sfidante a ripetere che il paese sta perdendo terreno o il rispetto del resto del mondo, in modo da costringere ogni volta il presidente in carica sulla difensiva.

Ma è davvero questione di declino?

Le mie ricerche ruotano proprio intorno al ruolo della percezione che lo status della nazione sia sotto minaccia, ne ho studiato gli effetti sia a livello di politica interna che internazionale. Nel marzo di quest’anno ho condotto un esperimento che ha coinvolto 1079 cittadini americani, il cui obiettivo era capire, o almeno provarci, se e come le preoccupazioni intorno al declino del paese in qualche modo influenzino le opinioni degli elettori a livello di politica estera.

Abbiamo chiesto a un terzo selezionato a caso dei partecipanti di leggere un testo in cui esperti e leader di entrambi i partiti confermavano che il paese è in declino, se messo a confronto con suoi concorrenti internazionali. Un altro terzo ha invece letto un messaggio di segno opposto, con dati, anche qui messi insieme da esperti bipartisan, che al contrario dimostrano come le preoccupazioni intorno al declino nazionale siano esagerate. Al terzo gruppo invece è stato dato un testo che nulla aveva a che fare con la politica.

Chi ha letto il documento che conferma il declino americano ha manifestato livelli di paura, ansia e rabbia superiori rispetto agli altri. Uno dei partecipanti, per esempio, ha scritto: «La mia principale preoccupazione è che il resto del mondo non ci porti rispetto. Se ci mostriamo deboli, qualcuno finirà per superarci».

Dall’altro lato però il testo che contestava l’effettiva sostanza delle teorie sul declino non ha contribuito granché a calmare le ansie degli americani. Il 30 percento circa delle persone, che fossero di orientamento liberal o conservatore, dopo aver letto i dati forniti dagli esperti ne ha contestato la premessa – molti di più rispetto al solo 11% che ha rigettato l’idea contraria, quella del primo documento.

Alcuni partecipanti hanno addirittura chiesto se il testo non fosse uno scherzo, precisando che gli Stati Uniti stanno diventando un «paese del terzo mondo». Altri hanno fatto riferimento allo stato del sistema sanitario o le questioni legate ai diritti riproduttivi domandandosi come sia possibile che ci sia davvero qualcuno secondo cui gli Stati Uniti non sono un paese in declino.

Rispondere alle emozioni con le emozioni

Quando i democratici hanno cambiato il ticket, in seguito all’annuncio del ritiro di Biden a luglio, hanno cambiato pure il loro messaggio elettorale. La nuova candidata alla presidenza Kamala Harris e il suo vice Tim Walz hanno anche loro, occasionalmente, giocato sulla paura di un secondo mandato Trump e delle sue potenziali conseguenze, ma hanno anche usato un linguaggio, e parlato di argomenti, che al contrario mettono al centro emozioni come gioia ed entusiasmo, ricordando per esempio l’esperienza di Walz come insegnante e allenatore di football e l’orgoglio di Harris per il lavoro e i sacrifici di sua madre. «Guidati dall’ottimismo e dalla fede, dobbiamo scrivere il prossimo grande capitolo della più straordinaria storia mai raccontata», ha detto Harris nel discorso con cui accettava la nomination, incoraggiando i suoi sostenitori. La candidata democratica ha poi risposto al «Make America Great Again» di Trump con un contro-slogan di grande impatto emotivo: «Not Going Back».

Nella sua prima apparizione come candidato alla vicepresidenza, il 6 agosto, Tim Walz ha ringraziato Harris per «aver riportato la gioia». Nei suoi comizi pieni di botta e risposta con il pubblico e cori, Kamala Harris usa la retorica dell’entusiasmo per chiarire come vede il futuro del paese, mettendo a confronto diretto i suoi eventi con quelli di Trump, che ha definito «show apocalittici».

Un altro esempio è il sottotitolo di uno dei comunicati di Harris immediatamente successivo a una conferenza stampa di Trump, che recitava: «Split screen: Gioia e libertà vs Qualunque cosa fosse quella roba».

Dove stanno gli Stati Uniti sul palcoscenico globale in questo 2024

Se è vero che i comizi di Harris si concentrano per lo più su questioni di politica interna come l’aborto e le disuguaglianze, il dibattito intorno al posto che gli Stati Uniti occupano nel mondo non si esaurirà mai. In un sondaggio di agosto, la seconda ragione per cui gli elettori dicono che voteranno la candidata democratica fa riferimento alla sua capacità di elevare lo status degli Stati Uniti sulla scena internazionale – e d’altra parte la seconda ragione più menzionata per cui i suoi oppositori invece non la voteranno è che secondo loro indebolirà la posizione degli Stati Uniti nel mondo.

Mentre Trump continua a descrivere gli Stati Uniti come un «paese in declino», Harris nel suo discorso alla convention ha risposto che lavorerà «affinché l’America e non la Cina vinca la rincorsa al ventunesimo secolo, rafforzando, e non perdendo, la nostra leadership globale».

Harris ha detto anche un’altra cosa nel discorso con cui ha accettato la nomination: «I nostri avversari in questa elezione passano le loro giornate a denigrare l’America, ripetono quanto tutto sia terribile. Beh, c’è un altro insegnamento che mia madre amava ripetere: non lasciare che nessuno ti dica chi sei, sei tu a mostrargli chi sei».

La retorica elettorale del declino americano è molto praticata sin almeno dagli anni ’60, e non sembra che passerà di moda molto presto. Ma con il nuovo ticket i democratici hanno deciso di rispondere alle emozioni con le emozioni. E c’è caso che funzioni meglio rispetto a cercare di spiegare alla gente che le cose non vanno male come temono.