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Gli Stati Uniti hanno una storia ma non una tradizione di violenza
Qualche riflessione sulla natura della violenza in America, a seguito del tentato assassinio dell’ex presidente Trump e partendo da un saggio che lo storico Richard Hofstadter scrisse sul tema nel 1970
MARIO ALOI
15/07/2024
Hanno sparato a Donald Trump. Una persona è morta e due sono gravemente ferite, l’ex presidente è salvo. Ormai lo avrete letto da tutte la parti. Anche l’attentatore è stato identificato e poi ucciso. Molti commentatori hanno cominciato a dire che la violenza, politica e non, negli Stati Uniti ha raggiunto livelli senza precedenti. Trump nel suo comunicato ufficiale post-sparatoria ha riproposto il concetto a modo suo: impossibile pensare che una cosa del genere possa succedere nel nostro paese, ha scritto. Ma è davvero così?
Non proprio. Già nel 1970 gli storici Richard Hofstadter e Michael Wallace compilavano un catalogo della violenza all’americana che ben illustra varietà e frequenza degli episodi. Il libro, dal didascalico titolo American Violence, rivendica di essere la prima review approfondita sull’argomento ed è diviso in otto macrosezioni che organizzano le diverse occorrenze per movente – violenza politica, economica, razziale, religiosa, poliziesca, etc. All’interno sono ricostruiti con approccio documentario ben 119 casi. Ci sono disordini, massacri, linciaggi, duelli, assassinii presidenziali, delitti politici di vario genere e pure attentati terroristici. È un resoconto ovviamente parziale, ma l’incedere enciclopedico delle voci dà il senso di quanto profonde siano le radici di questa storia. Paradossalmente la collezione di tutti questi episodi rivela la natura per nulla episodica del fenomeno. E il volume arriva appunto solo fino al 1970.
Nella sua introduzione al catalogo, Hofstadter dice almeno un paio di cose che anche in relazione a quanto accaduto sabato a Butler, Pennsylvania, ci aiutano a inquadrare la natura peculiare della violenza americana, a partire proprio dal paragrafo con cui apre il testo, che va senza perdersi in chiacchiere al cuore della faccenda. Eccolo:
«Gli Stati Uniti, qualcuno ha detto, hanno una storia ma non una tradizione di violenza interna. Una storia perché la violenza è stata frequente, ampia, quasi un luogo comune del nostro passato. Ma questo non basta a farne una tradizione, per due ragioni. Primo, la nostra violenza non ha alcun centro, né ideologico né geografico. Manca di coesione. È stata troppo varia, diffusa e spontanea per essere rinchiusa nel quadro di un singolo, sostenuto e radicato moto di risentimento condiviso da intere classi sociali. Secondo, abbiamo una cronica incapacità di costruire memoria intorno alla violenza, tanto che i nostri eccessi in questo senso sono storia sepolta».
Dicevamo sopra, la violenza americana è episodica e non episodica insieme. Le singole manifestazioni sono troppe per pensarla sporadica, o caratteristica di congiunture eccezionali, ma allo stesso tempo sembra mancare di qualunque organizzazione, di un frame più ampio in cui dare coerenza, o fare rete, delle singole esplosioni. Che sono continue, ma frammentarie. Persino gli assassinii presidenziali, riusciti o anche solo attentati, hanno spesso la forma più del mass shooting – l’espressione di violenza americana per eccellenza, almeno nell’immaginario contemporaneo: un colpire nel mucchio, disordinato, violenza per la violenza, senza plot più ampio o giustificazione più alta, nemmeno pretesa – che non del delitto politico.
Non sappiamo ancora il movente dell’uomo che ha provato a uccidere Trump, ma quanto accaduto sabato sembra una versione aggiornata e più spinta, postmoderna in qualche modo, del tentato assassinio di Reagan del 1981. Lo spazio è più caotico e affollato, il momento televisivo, lo scenario da campagna elettorale – un centro nervoso più esposto della normale routine presidenziale – ma nel complesso potremmo essere davanti a un’altra iniziativa che forse è passata tra le maglie dell’intelligence perché fondamentalmente solitaria. Non capillare, priva di network o supporto esterno, impossibile da intercettare per chiunque non fosse nella testa dell’attentatore.
Nel caso di Reagan a ben guardare già il movente era così personale da sfiorare il solipsismo. Vien quasi da ridere a dirlo, ma John Hinckley Jr voleva solo attirare l’attenzione di Jodie Foster, per la quale aveva sviluppato una sorta di ossessione erotica dopo averla vista in Taxi Driver – anche lì c’è l’idea di ammazzare un candidato presidenziale, ricordate? Siamo ovviamente nel campo delle proiezioni psicotiche, un orizzonte limitatissimo, che non va oltre il nucleo personale di ferite narcisistiche dell’attentatore. Eppure per l’assassinio di un presidente il palcoscenico è necessariamente nazionale, la dimensione mediatica e la scala della pretesa attenzione planetaria. L’americano è massa anche nelle sue più intime miserie, nel suo profondo più individuale, e la collisione tra angoscia privata e rabbia sociale prende sempre la forma del rituale collettivo, che quindi poi si serve di spazi e simboli adeguati. Se infatti è vero che le radici profonde della violenza presidenziale sono spesso paradossalmente pre-politiche, lo è altrettanto che nessun presidente degli Stati Uniti è mai stato ucciso nell’intimo della sua vasca da bagno come un Marat qualsiasi, gli sparano ogni volta a teatro, o nel bel mezzo di parate, comizi ed esposizioni universali. Insomma, davanti al pubblico più nutrito possibile.
Ci sono a dirla tutta alcune timide eccezioni, casi in cui anche il movente sembra suggerire la ricerca di una giustificazione magari vaga ma di maggior respiro, un’architettura non proprio solo egoriferita. Però anche lì, mai con reale convinzione. Leon Csolgosz, per esempio, uccise McKinley nel 1901 come atto di protesta civile: era un anarchico e vedeva nel presidente un simbolo di oppressione. Anche la disoccupazione contribuiva al suo malcontento, che però per quanto avesse questa volta sì chiari connotati politico-sociali, nella sua manifestazione estrema suona comunque sempre privato: l’azione rimane isolata, nessuna organizzazione, complotto di gruppo, figuriamoci progetti rivoluzionari. Forse giusto l’assassinio di Lincoln ha una vera dimensione più ampia, ma si era nel contesto della guerra civile, l’unico massacro con un’effettiva struttura – l’unica reale eccezione, che conferma la regola – in due secoli e mezzo di violenza senza centro ideologico. Ci sarebbe anche Oswald, ma sulle sue ragioni continua ad aleggiare la più sconfortante indeterminatezza, prove che esistesse una qualsiasi concertazione ancora oggi non ce ne sono. Mettiamola così: gli americani hanno ucciso i loro più alti rappresentanti, o ci hanno provato, per una gran varietà di motivi, ma mai davvero per prenderne il posto. E questo ci porta direttamente al secondo passaggio di Hofstadter che vale la pena rileggere oggi:
«Una caratteristica centrale della violenza in America, e uno dei dettagli chiave per capirne la storia, è che solo una minima parte di essa è mai stata davvero insurrezionale. La maggioranza delle azioni violente nel nostro paese sono perpetrate da un gruppo di cittadini verso un altro gruppo di cittadini, mai dalla cittadinanza contro lo stato. Le grandi dimensioni del paese, la composizione mista dal punto di vista etnico, religioso e razziale della popolazione, e la decentralizzazione del potere sotto il nostro sistema federale tendono da sempre a cancellare o comunque minimizzare i conflitti tra stato e popolo, offrendo come valvola di sfogo quelli tra i diversi gruppi sociali».
Pure il picco di violenza politica di cui parlano i giornali in questi giorni a scendere nel dettaglio si compone per buona parte di violenze individuali, spesso private, o atti vandalici con movente sì politico, ma per lo più in chiave identitaria. Esistono – e sono in ascesa – gruppi e milizie con chiara connotazione ideologica che negli ultimi anni hanno predisposto azioni violente o fatto uso intensivo di retorica violenta, e ci sono state aggressioni di varia intensità a danno di personalità politiche anche di spicco, presidenti a parte. I casi della deputata democratica Gabby Giffords nel 2011 e del suo collega repubblicano Steve Scalise nel 2017 sono forse i più celebri. Ma la dinamica è di nuovo quasi sempre quella del mass shooting, un’esplosione di colpi che almeno nel risultato finisce per non avere bersaglio definito – né balistico, né di fatto ideologico, almeno per quanto riguarda il quadro grosso, la struttura sociale nel suo insieme. È davvero difficile infatti dare connotazione e coerenza politica a queste azioni: l’attentatore di Giffords non aveva alcuna coscienza in questo senso, quello di Scalise era un sostenitore di Sanders, e il giovane che due giorni fa ha sparato a Trump addirittura, a quanto pare, un elettore repubblicano. Per dirla con Hofstadter, manca un centro. È un panorama ancora oggi del tutto disorganizzato.
Esiste però una forma di violenza lungo la storia americana che è senza dubbio strutturata: quella razziale. Ha un tradizionale centro geografico negli stati del Sud ed è intrinsecamente politica, perché interessa la gerarchia sociale che regge il sistema paese. È uno degli scontri tra gruppi di cui parla Hofstadter, uno di quelli primari, che stanno alle fondamenta della storia nazionale. Oggi però le sue manifestazioni sono a loro volta più sparpagliate, ancora coerenti – esprimono sempre, dopotutto, coscienza di gruppo, da una parte e dall’altra – ma via via perdono ordine: il loro carattere sistematico insiste per lo più nei retaggi, a grandi profondità storiche. Ne abbiamo visto un riflesso particolarmente disturbante nell’attacco al Campidoglio del 6 gennaio 2021, promosso e condotto da una folla quasi interamente bianca – l’ultimo episodio di violenza che è impossibile eludere in questa rassegna, perché forse non solo sistematico ma per una volta davvero sistemico, puntato sul cuore della repubblica, spillover finale in cui la violenza cieca che irrora la società americana dalla sua fondazione – una violenza finora più sociologica che strettamente politica – fa massa critica e cambia di stato, diventando minaccia reale per la tenuta generale del castello istituzionale. Un’ultima cosa da Hofstadter, su questo punto:
«I paesi che consideriamo molto violenti sono anche quelli che ci danno l’idea di essere politicamente inetti, affetti da un’instabilità cronica. Ma non gli Stati Uniti, che hanno da sempre livelli di stabilità politica inglesi o scandinavi, ma al contempo sono teatro di violenze civili con frequenza e intensità che ricordano più alcune tra le repubbliche sudamericane, o le giovani e turbolente nazioni di Asia e Africa».
Che il 6 gennaio fosse il rito di passaggio in cui questo paradosso ha infine cominciato a risolversi?