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Civil War: violenza politica ed eversione nell’America trumpiana

Nel film di Alex Garland vediamo ritratti gli Stati Uniti di oggi, in cui l’avversario politico viene percepito come minaccia esistenziale.

DANIELE CURCI
22/05/2024

 


«Può accadere anche qui» è il monito, peraltro esplicitato dal regista Alex Garland in un’intervista, che accompagna la visione di Civil War, una pellicola che instaura parallelismi con la situazione attuale negli Stati Uniti narrando di una immaginaria guerra civile in cui California e Texas hanno formato una – improbabile nella realtà, viste le differenze tra i due stati – alleanza politico-militare per spodestare l’inquilino della Casa Bianca. Diversi statunitensi ritengono infatti l’evenienza di una guerra civile qualcosa di concreto. In un sondaggio condotto quest’anno da CBS/YouGov, il 49% degli americani ha affermato di aspettarsi atti di violenza da parte di chi perderà le future elezioni. Un sondaggio condotto dall’Associated Press/NORC Center for Public Affairs Research ha inoltre confermato che la maggioranza della popolazione in età adulta, senza distinzione tra democratici o repubblicani, ritiene che la democrazia statunitense potrebbe essere a rischio a seconda di chi vincerà le prossime elezioni. In un sondaggio del 2022 il 43% degli americani affermava esplicitamente di ritenere l’evenienza di una guerra civile entro il prossimo decennio probabile.

I protagonisti di Civil War sono dei giornalisti che vogliono recarsi a Washington per intervistare il presidente: Lee Smith (Kirsten Dunst), una nota fotoreporter, Joel (Wagner Moura), giornalista che accompagna Smith nelle sue avventure, il “patriarca” di questi ultimi Sammy (Stephen McKinley Henderson), cui si aggiunge la giovane aspirante fotoreporter Jessie Cullen (Cailee Spaeney). Tra le diverse tematiche che Civil War affronta, quindi, c’è anche quella dello scetticismo che circonda il giornalismo. E difatti, per quanto distopico possa essere, il film è una sorta di reportage. Idea trasposta nelle parole di Smith a Cullen, quando in una scena le dice che loro, come giornalisti, devono limitarsi a registrare e riportare i fatti, affinché gli altri possano farsi un’opinione.

Per sottolineare l’ammonimento Garland ambienta il suo film in luoghi familiari agli statunitensi. I campi profughi che si vedono nel film, ad esempio, non sono molto distanti dalle tendopoli di alcune città degli Stati Uniti. Azione resa ancora più incisiva attraverso la rappresentazione realistica e a tratti esasperata della violenza in ambientazioni profondamente americane, così da mettere in rilievo la possibilità che atti violenti normalmente associati ai conflitti stranieri possano verificarsi anche negli States. Nella preparazione all’offensiva finale su Washington delle forze di California e Texas, ad esempio, assistiamo a delle scene che ricordano la guerra del Vietnam, in cui i militari vengono ripresi in mezzo a dei prati, tra tende ed elicotteri. Le immagini dei combattimenti strada per strada a Washington, invece, oltre a essere una versione più intensa del 6 gennaio 2021, ricordano i conflitti in Afghanistan e Iraq.

Uno scenario da guerra civile non è estraneo all’immaginario dell’estrema destra statunitense che, a partire dagli anni Settanta, ha portato anche ad attacchi terroristici e alla formazione del militia movement, espressione che indica la galassia di formazioni armate, prevalentemente di estrema destra, che a partire da una visione cospirazionista si erigono a difesa delle libertà rispetto alla presunta oppressione governativa. Tra i volumi fondativi di questa galassia sono i Turner Diaries del 1978, un romanzo che narra di una “rivoluzionaria” guerra razziale negli Stati Uniti. Scritti come i Turner Diaries incarnano la realizzazione del desiderio suprematista bianco. Non a caso i Diaries avrebbero ispirato le azioni di alcuni tra gli assalitori del 6 gennaio che avevano montato una forca nei pressi del Campidoglio, con l’intento d’impiccare il vicepresidente Mike Pence accusato di tradimento nei confronti di Donald Trump. I Diaries, infatti, si concludono con il «giorno del cappio»: l’impiccagione dei traditori.

La galassia dell’estrema destra e di parte del Partito Repubblicano risente di una visione paranoide che individua nella cosiddetta cultura woke e nelle rivendicazioni delle minoranze e delle donne una minaccia all’integrità del Paese. All’indomani dell’assassinio di George Floyd, del resto, fu l’allora presidente Donald Trump ad alimentare queste visioni in un discorso pronunciato nella data simbolica del 4 di luglio 2020. Nel suo discorso, Trump sosteneva che vi era una «minaccia crescente a ciò per cui i nostri antenati hanno combattuto», cioè che i manifestanti e i detrattori della cosiddetta cultura woke volessero distruggere l’identità e il portato culturale statunitense. Trump creava un nemico dipingendo i suoi critici come un-american, alieni alla nazione, chiamando all’intervento i suoi elettori ed elogiando il secondo emendamento, che «ci garantisce il diritto a portare armi». Più volte, inoltre, da quando ha perso le elezioni Donald Trump ha glorificato o comunque giustificato i rivoltosi del 6 gennaio, arrivando in una recente intervista per Time a non escludere la presenza di atti violenti nelle strade dopo le elezioni: «dipenderà da quanto sarà equo il voto».

The Donald ricorda, sotto alcuni punti di vista, il presidente di Civil War. Nel film, ad esempio, viene criticata la scelta del presidente di sciogliere l’FBI. Un riferimento che sembra richiamare certe affermazioni di Trump quando, durante la sua presidenza, aveva paventato la dissoluzione della polizia federale considerata collusa con i democratici. Tra i parallelismi più inquietanti è l’accenno, fatto da Joel, a violenze sui civili statunitensi ordinate dal presidente. I riferimenti all’impiego della forza, compresa quella militare, non sono estranei a Donald Trump, che in passato ha parlato più volte della possibilità d’impiegare la forza militare dentro i confini statunitensi. Eventualità che paventò anche durante le proteste per George Floyd. Infine, troviamo un’altra somiglianza all’inizio del film, quando si vede il presidente esercitarsi – mentre si alternano immagini che ricordano il 6 gennaio – in un discorso da pronunciare alla nazione in cui sono evidenti le iperboli assurde e mendaci che caratterizzano la retorica trumpiana.

Gli Stati Uniti, nella loro storia, sono stati spesso caratterizzati dal confronto per la definizione di chi facesse parte della nazione. Perimetri che si sono ampliati negli anni Cinquanta e Sessanta per le rivendicazioni del movimento per i diritti civili e di altri movimenti, come quello femminista, ma a cui è seguita una vasta ed energica reazione conservatrice e suprematista sia all’interno che all’esterno del Partito Repubblicano. Civil War parla anche dei rischi di questa reazione. Mentre i protagonisti stanno recandosi a Washington, Jessie viene catturata, assieme a un giornalista di origini asiatiche, da alcuni paramilitari bianchi che stanno riempiendo di cadaveri una fossa comune. Nel tentativo di salvarli, Smith e Joel, accompagnati dal compagno del giornalista asiatico, cercano d’intavolare un dialogo con il capo dei miliziani – che dal vestiario ricorda un esponente delle milizie, come i Boogaloo Boys. Come risposta il miliziano chiede a Joel: «Che tipo di americano sei?». Dopo di che uccide i giornalisti asiatici e fa intendere che gli unici che egli ritiene “veri” statunitensi sono Jessie e Smith, perché Joel è di origine sudamericana. Siamo di fronte a due narrazioni dell’America che si contrappongono in maniera difficilmente conciliabile.

Tra le ragioni della crisi che attraversa la società statunitense vi è, per l’appunto, l’incapacità di riconoscere gli interlocutori come soggetti legittimi. Un problema che riguarda anche il funzionamento della democrazia statunitense, perché è ciò che impedisce di risolvere e depotenziare lo scontro politico accettandolo come competizione elettorale. L’avversario diviene così nemico perché rappresenterebbe una minaccia esistenziale all’essenza dell’America e del suo popolo, alimentando il rischio di atti violenti.