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Trump, Biden e le tribolazioni di una democrazia di immigrati /02

Quando la composizione etnico-razziale della popolazione degli Stati Uniti si modifica, anche il popolo politico si trasforma e la democrazia americana attraversa periodi di crisi.

ARNALDO TESTI
13/05/2024

 


Questo articolo è apparso originariamente sul blog di Arnaldo Testi Shortcuts America ed è parte di una serie composta da diversi pezzi che sviluppano e approfondiscono il tema, qui le altre puntate.

Tutto nella politica di Donald Trump parla di reazioni a una democrazia in crisi di trasformazione dal punto di vista etnico-razziale. Si pensi a quanto c’è di reale e di simbolico, da questo punto di vista, nella sua vittoria del 2016. Trump era (e tanto più è) il beniamino dei nazionalisti bianchi, ed è stato eletto subito dopo il primo presidente nero, Barack Obama, di cui, con una polemica razzista, ha messo in dubbio l’americanità (figlio di un padre migrante temporaneo africano, forse è nato in Africa?). Trump è stato eletto subito dopo che, per la prima volta nella storia nazionale, si è vista una famiglia nera nella Casa bianca, a black family in the White House. Sembrava che con l’elezione di Obama la barriera razziale fosse caduta, come titolò nel novembre 2008 il New York Times, in un impeto di wishful thinking. E invece no, almeno nei tempi brevi della politica accadde il contrario; nei tempi lunghi della storia, chissà. Qualcuno ha scritto: Trump è un presidente senza precedenti perché il suo predecessore Obama è senza precedenti.

E si pensi alla connotazione razziale dell’elettorato di Trump e di quello della sua antagonista democratica, Hillary Clinton. Alle elezioni presidenziali del 2016 gli elettori di Trump erano per quasi il 90% bianchi di discendenza europea (88%, con il 6% d’ispanici e 1% di neri) – una fotografia del makeup demografico dell’America del 1960. Gli elettori di Clinton erano solo per il 60% bianchi (più 19% neri e 14% ispanici) – una fotografia del makeup multietnico e multirazziale dell’America di oggi. Nei grandi numeri, ciò faceva (e fa) del Partito Repubblicano il partito degli americani che sognano l’America del tempo che fu. A sentire i trumpiani più fedeli, è questa la nostalgia che dà senso allo slogan MAGA, Make America Great Again, uno slogan in effetti molto casalingo: l’America era grande non quando era imperiale nel mondo ma quando era quasi tutta bianca in casa, e comunque prima di Obama.

I quattro anni di presidenza Trump sono stati coerenti con le premesse e le promesse. Anzi, il Trump presidente non ha fatto che rincarare la dose con le chiacchiere etno-nazionaliste, con le allusioni razziste avvelenate, con il ricorrente appello alla sicurezza delle frontiere, alla necessità di costruire un muro lungo il Rio Grande, lungo il confine con il Messico. L’arrivo del Covid nell’ultimo anno della sua presidenza gli ha dato modo di evocare anche il «pericolo giallo», di parlare di un China virus, un virus venuto dalla Cina. E si può immaginare come ciò sia stato accolto dai cittadini americani di discendenza cinese, e da chi ha cominciato a guardarli in modo storto come se fossero loro, i chinese-americans, i responsabili della pandemia, gli untori.

Normalmente, dopo essere stato eletto, il presidente vincitore ammorbidisce i toni della campagna elettorale, si presenta come il presidente di tutti, non solo della sua parte, fa persino gli inevitabili compromessi retorici e politici. Trump no, è stato coerente. Una delle eredità più durature del suo governo, accanto alla nomina a vita di centinaia di giudici federali conservatori e di tre giudici della Corte suprema, è stata proprio questa: la corruzione del linguaggio pubblico sui temi della convivenza civile fra americani di etnie, razze, origini nazionali diverse. E’ un linguaggio (in America come dappertutto) che per sua natura è fragile, delicato, bisognoso di cure. E che invece Trump ha usato in modo divisivo, in diretta dal pulpito più prestigioso, dalla Casa Bianca. Ne ha fatto un’arma di contrapposizione, di polarizzazione politica.

Il processo di contrapposizione, di polarizzazione sociale, culturale e infine politica e di partito è cominciato ben prima di Trump. L’inizio risale a mezzo secolo fa, e coincide con l’ingresso nell’elettorato attivo di nuovi soggetti etnico-razziali alla fine degli anni Sessanta del Novecento. Coincide dunque con la rivoluzione dei diritti civili che ha riattivato la partecipazione politica degli afroamericani, una presenza molto visibile, vivace, vibrante: per farla breve, da Martin Luther King e il black power fino a Black Lives Matter. E coincide con la riapertura dei confini all’immigrazione di massa, che è avvenuta negli stessi anni, a metà degli anni Sessanta, e che ha prodotto milioni di nuovi residenti e cittadini attivi nella vita sociale, economica, nella vita pubblica.

La migrazione è stata enorme, ha coinvolto fino a oggi probabilmente 60 milioni d’individui. Ed è stata, per provenienza geografica e composizione etnica, di tipo diverso rispetto al passato, una novità per i vecchi americani, cioè per i figli dei vecchi immigrati, che erano quasi tutti di origine europea. Ora è vero il contrario. Ora i migranti europei sono praticamente scomparsi. I nuovi immigrati arrivano per metà dalle Americhe a sud del Rio Grande, sono quindi di origine ispanica, equamente divisi fra Messico e resto del continentePer più di un quarto arrivano dall’estremo occidente che diventa oriente, dalle isole del Pacifico e dall’Asia, da Filippine, Corea, Vietnam, Cina, India. Infine ci sono quote più piccole ma crescenti di origine nordafricana e medio-orientale (araba, musulmana) e di origine africana subsahariana.

In gran parte si tratta di persone percepite come people of color, che si sono aggiunte ai people of color di casa, gli afroamericani. Gli americani bianchi di discendenza europea hanno così sommato il nervosismo per le nuove migrazioni al nervosismo per il cambiamento demografico razziale complessivo del paese. Come si è visto, essi stanno calando in percentuale nel paese e le loro ansie stanno crescendo. Queste ansie hanno contribuito alla crescita del Partito Repubblicano che è diventato il loro partito, sempre di più il partito dei movimenti popolari di destra che esprimono le preoccupazioni bianche, le paure bianche, i risentimenti bianchi, in alcuni casi gli istinti illiberali ed eversivi bianchi. Le prime tappe in questa direzione sono state la vittoria a valanga di Richard Nixon nel 1972 e le maggioranze conservatrici di Ronald Reagan nel decennio successivo. L’ultima tappa è il successo di Donald Trump, che di questo processo è sia il prodotto che il rabbioso imprenditore finale.

Non è la prima volta che ci sono crisi e reazioni del genere, nella storia nazionale americana.