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Proteste e democrazia

Il significato delle manifestazioni nei campus, ben oltre la semplice aritmetica elettorale.

MARIO ALOI
10/05/2024

 


Ogni volta che in un anno elettorale esplodono proteste su larga scala, la mente dei commentatori americani – forse della popolazione tutta – va come per riflesso al ’68. È successo quattro anni fa con Black Lives Matter, succede oggi con i campus e le manifestazioni per Gaza. Questa volta diciamo che il collegamento è anche più automatico. Gli studenti della Columbia hanno citato quasi letteralmente le azioni dei loro predecessori, occupando lo stesso edificio nello stesso giorno. E poi la convention democratica sarà a Chicago, proprio come quell’anno. Immediato associare ambientazione e disordini.

Anche per quanto riguarda le possibili ripercussioni politiche del crescente clima di tensione, lo spauracchio di allora somiglia parecchio a quello di oggi. Richard Nixon è infatti il vero padre di Donald Trump. Come spesso accade il genitore è più rigido, l’erede più disinvolto, ma il legame è profondissimo, si vede a occhio nudo sin dalle caratteristiche superficiali. Pensate per esempio quanto la definizione che Hunter Thompson coniò per il primo – a plastic man in a plastic bag – calzi benissimo anche al secondo. Ognuno di fronte al suo tempo, due gocce d’acqua.

Eppure il parallelo è tanto facile quanto impreciso. La due congiunture politiche hanno infatti polarità quasi inverse.

A metà degli anni ‘60 Lyndon Johnson era all’apice del suo potere trasformativo, una tensione progressista così spinta da esplodergli tra le mani. La cosiddetta New Deal Era inseguiva il proprio compimento provando a coniugare riforme economiche, sociali e civili. Ma esattamente mentre i suoi promotori disponevano gli ultimi ritocchi a un radicale processo di trasformazione del paese che andava avanti da più di trent’anni, di fatto lo facevano impazzire. Per dirla con il politologo di Yale Stephen Skowronek, «lo stesso potere che apre a traguardi ogni volta più ambiziosi rende quegli stessi traguardi sempre più distruttivi». Un ordine all’apice necessariamente implode, insomma.

Biden oggi naviga tutt’altre acque. Il suo partito ormai da anni si presenta come garante dell’ordine, l’argine democratico in tempi di grande stress istituzionale. Con alterne fortune, lavorano a tenere insieme il sistema. Nei decenni che separano Biden da Johnson il liberalism è diventato una forma di conservazione. Sia chiaro, il presidente non è del tutto insensibile a istanze di cambiamento. Quando ha detto, dopo giorni di proteste ed esitazioni, «che esiste un diritto a protestare, ma non uno a creare il caos», in fondo stava cercando di trovare la quadra tra contestazione del sistema e sua difesa – un equilibrio forse impossibile, che incastra le sinistre di tutto il mondo da almeno quarant’anni.

Un punto in comune tra i due momenti però ovviamente esiste. Oggi come allora il paese sta facendo la muta, e il caos che prende la scena su giornali e televisioni è il risultato di questa transizione. Leggiamo in giro che le proteste sono un problema perché destabilizzano la coalizione di Biden e rischiano di complicare la sua posizione in vista delle elezioni di novembre. Che le sinistre cosiddette radicali sono una minoranza mai contenta, remano contro e finiranno per far vincere Trump, con candidati terzi o rimanendo a casa. Un modo curioso di guardare alla politica. E alla storia.

I disordini non distruggono le coalizioni politiche, al contrario sono il segnale che quelle stesse coalizioni fanno sempre più fatica a stare insieme. E con loro il tessuto sociale tutto. Proprio il ’68 in questo senso è un buon esempio. Cinquantasei anni fa non furono le proteste nelle strade e nei campus a mandare in pezzi la coalizione del New Deal, allontanando l’elettorato moderato o conservatore dal Partito Democratico e favorendo la vittoria di Nixon. La coalizione era già andata, schiacciata dal peso delle proprie conquiste. Il rumore per le strade era soltanto la proverbiale punta dell’iceberg di un disordine sociale molto più profondo.

Scosse di assestamento

Le diramazioni di queste proteste s’intrecciano in un set di potenziali problemi piuttosto complesso per l’amministrazione in carica. Il primo è di mera aritmetica elettorale. Possiamo formularlo più o meno così: esiste un malcontento giovanile? Nel caso, qual è la scala? E avrà un qualunque impatto sulle elezioni di novembre?

Biden sta effettivamente perdendo consensi all’interno della fascia 19/29, ma è difficile collegare direttamente questo calo a Gaza nello specifico. I manifestanti nei campus non sono rappresentativi della gioventù americana nel suo complesso e sebbene l’opinione su Israele di questo particolare segmento demografico sia decisamente peggiore rispetto ad altre fasce di età, la questione palestinese non sembra tra le priorità dei giovani per la prossima elezione. Inoltre, l’elettorato giovane su scala nazionale non universitaria non è necessariamente più radicale di quello generale. L’elettore mediano è sempre piuttosto moderato, indipendentemente dall’età.

Se relativamente alle proteste Biden non ha un problema elettorale in senso stretto, almeno per il momento, ne ha però senza dubbio uno politico. La coalizione che sorregge il partito del presidente è in fase di riconfigurazione da decenni e al momento è ancora piuttosto instabile e indefinita. Per dire, tra la vittoria di Obama nel 2012 e quella di Biden del 2020 ci sono stati parecchi spostamenti a livello di blocchi elettorali. Una cosa però è certa: vera o presunta che sia, la nuova coalizione democratica è meno bianca, meno religiosa e più istruita di quanto non fosse qualche decennio fa (e della media nazionale). Queste tre cose messe insieme creano più di un grattacapo quando si parla di Israele.

Storicamente il sostegno all’alleato è posizione bipartisan, che ha sempre messo d’accordo entrambi i partiti. Ma questa posizione è per i democratici ogni giorno meno sostenibile. Da un lato c’è appunto un elettorato che si regge sempre più su giovani e minoranze, entrambi gruppi che tendono ad avere un’opinione di Israele meno favorevole del resto della popolazione. Dall’altro ci sono tutta una serie di ufficiali eletti a vari livelli – con il Congresso in testa – sempre più insofferenti perché a questi elettorati devono rendere conto. Insomma, Biden si trova a fare l’equilibrista su un filo molto scivoloso. E metteteci anche che da marzo, con uno storico ribaltamento, per la prima volta la maggioranza dell’opinione pubblica americana generalmente intesa non approva la gestione della crisi da parte di Netanyahu. Il fastidio sembra insomma sempre meno localizzato. Ma più in generale il punto è: ci sono paradigmi storici che stanno saltando sotto i piedi dell’amministrazione e del partito che la sostiene.

Preoccupazioni di oggi, problemi di domani

Ovviamente i tassi di gradimento c’entrano solo in parte, l’intera faccenda è ancora più sottile del filo di cui sopra. In generale negli ultimi decenni la politica israeliana si è spostata in maniera significativa verso destra e questo è in crescente contraddizione con il sistema di valori che il Partito Democratico americano intende proiettare. L’appoggio materiale, finanziario e militare all’alleato non è ancora venuto a mancare (forse non verrà mai a mancare, anche se ci sono stati dei movimenti in questo senso proprio negli ultmi giorni), ma il crescente nervosismo di Biden e dei suoi sulla questione è palpabile. E non è nemmeno una cosa del tutto nuova, già con Obama ogni scambio trasudava imbarazzo, con picchi d’irritazione manifesta senza precedenti.

La questione del sistema di valori poi finisce a cascata direttamente su quella dell’argine democratico, che è uno dei due argomenti cardine di Biden per la rielezione. Il cuore del suo messaggio elettorale. C’è ovviamente una contraddizione che la gente tende a notare – se non razionalmente, quanto meno la avvertono – tra il presentarsi come garanti della democrazia e poi sostenere un alleato come Israele che calpesta il diritto internazionale, è arrivato a varare una legge che divide la popolazione in cittadini di prima e seconda classe, e adesso mette pure al bando reti televisive sgradite al governo. Da questo punto di vista, anche mandare la polizia a reprimere le proteste degli studenti non fa una bella impressione. Vero che Biden non è direttamente responsabile degli interventi delle forze dell’ordine nei campus, ma nella percezione pubblica tutte queste cose si mescolano e finiscono poi inevitabilmente addosso al presidente, specie in un anno elettorale.

Questo discorso vale anche per le priorità dell’elettorato. L’indagine di Harvard Gazette su cui tutti hanno puntato l’attenzione in queste settimane, quella secondo cui solo il 34% dei giovani americani ritiene la crisi a Gaza un problema in vista delle prossime elezioni – e che quindi dimostrerebbe che insomma queste proteste non riflettono in alcun modo l’umore dell’elettorato giovanile nel suo complesso, né tanto meno quello dell’intera nazione – nasconde tra le sue pieghe un altro paio di dati che non c’entrano ma c’entrano e su cui varrebbe la pena riflettere. Per esempio il fatto che molto più in alto in classifica – con il 52%, quindi preoccupazione maggioritaria – sta proprio la protezione della democrazia. Oppure la nota finale sulla crescente sfiducia del pubblico giovane nelle istituzioni. Dal 2015, la presidenza è giù di 60 punti, la Corte Suprema di 55. Wall Street, i media, l’esercito – sono tutti ai minimi storici, non c’è più un’autorità che tenga. Per ritornare al parallelo con i ‘60/70, sono numeri da anni del Watergate. Anni di crisi costituzionale, sistemica.

Quindi: forse Gaza non è una priorità diretta, ma Gaza potrebbe generare dei riflessi. La ragione è semplice, problemi e priorità dei vari elettorati interagiscono e s’impastano, nessuno vota a compartimenti stagni, con tutto ben separato come nei grafici dei sondaggi. Le varie questioni s’intrecciano e montano l’una nell’altra, specie sul lungo termine, creando un ambiente emotivo generale che poi orienta chi vota molto più della singola issue. Anche perché la democrazia non è un sistema di valori e priorità fisse, ma un elastico di spinte e controspinte. È un processo di sintesi, tra milioni di cose.

Democrazia dentro e democrazia fuori

Su quest’ultimo punto, una nota finale sulla marginalità/non marginalità di queste proteste, del loro movente e del loro significato più ampiamente inteso. Si dice spesso che la politica estera poi alla fine non conta granché quando la gente va a votare. In un certo senso è vero, ma come al solito i fili diretti non sono le uniche coordinate da seguire. Ti portano solo fino a un certo punto.

Per esempio c’è caso che i doppi standard continuamente adottati dagli Stati Uniti in politica estera abbiano giocato una parte nell’alimentare la crescente sfiducia nelle istituzioni che oggi mina la stabilità del sistema. O che le falsificazioni di Colin Powell davanti alle Nazioni Unite nel 2003, per dirne una, c’entrino qualcosa con la crisi in cui versa il corpo politico americano, considerato come la guerra in Iraq ha fatto capolino in tutte le svolte antiestablishment dei decenni successivi – dalla sconfitta di Hillary Clinton nelle primarie democratiche del 2008 fino alla prima nomination proprio di Donald Trump nel 2016.

In quel caso una delle principali autorità bipartisan del paese – di cui si fidavano tutti, da partito a partito – si presentò davanti al massimo organismo internazionale mentendo sapendo di mentire, al fine di legittimare l’invasione di un paese straniero. Difficile che questo episodio sia completamente slegato dal caos epistemolgico che viviamo oggi, con il pubblico che fa sempre più fatica a capire cosa è vero e cosa no, e quindi poi anche con l’ascesa di un personaggio come Donald Trump, che dice tutto e il contrario di tutto e non sembra mai pagarla, e che proprio attraverso la confusione cognitiva che alimenta ammassa consenso.

D’altra parte non è inconsueto che in modi più o meno diretti – più o meno perversi – gli ordini politici si avvitino e poi implodano sulla politica estera, capitò anche a Johnson con il Vietnam. Forse la domanda che dovremmo porci è questa: ignorare le norme della democrazia fuori dai propri confini alla lunga non finisce per danneggiare la democrazia anche dentro quei confini? È una domanda che oggi riguarda tanto gli Stati Uniti quanto Israele – e in fondo, appunto, anche la campagna di Biden, che sulla difesa della democrazia sta puntando una bella fetta della propria strategia elettorale. Ed è una domanda a cui gli studenti in protesta, intrecciando la questione della libertà di espressione a quella di Gaza, sembrano rispondere in maniera più lucida rispetto a molti dei loro amministratori.

In generale, anche qui, forse bisognerebbe iniziare a pensare ai fattori politico-elettorali come fenomeni di lungo periodo, che agiscono a volte sotterranei per molto tempo e poi esplodono in superficie tutti in una volta, magari travestiti da qualcos’altro. Perché non si arriva all’elezione (forse addirittura doppia) di un tizio come Donald Trump a causa di qualche corrente che non sta in riga, o peggio per un pugno di studenti irrequieti. Studenti che a sentir le cronache sono a un tempo marginali e pericolosissimi.